Giudizio abbreviato ed ergastolo: una lunga storia di interventi da parte del legislatore e della Consulta (e della Corte EDU)

04 Luglio 2025

Il problema della compatibilità fra la pena dell'ergastolo - prevista dal legislatore per i reati più gravi e che destano maggiore allarme sociale - e il giudizio abbreviato - rito alternativo al dibattimento che prevede, in caso di condanna, l'applicazione di una sanzione ridotta - si è manifestato praticamente fin dall'entrata in vigore del codice di procedura penale nel 1988.

Premessa

Inizialmente poteva accedere al procedimento speciale anche chi fosse imputato per delitti puniti con la pena perpetua: in caso di condanna, l'ergastolo si commutava in trenta anni di reclusione. La norma che prevedeva tale conversione, tuttavia, è stata dichiarata incostituzionale nel 1991; solo nel 1999, con la legge n. 479 del 1999 (c.d. legge Carotti), è stata nuovamente introdotta questa possibilità. Dopo vari interventi in materia da parte del legislatore, nonché della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (“caso Scoppola”) e delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (“caso Ercolano”), la legge n. 33 del 2019 ha definitivamente previsto il divieto di richiedere il rito alternativo quando viene contestato un reato sanzionato con l'ergastolo. La conformità al dettato costituzionale di tale divieto è stata più volte ribadita dal Giudice delle leggi, da ultimo con sentenza n. 2 depositata il 17 gennaio di quest'anno. 

La disciplina prevista dal codice di procedura penale al momento dell'entrata in vigore e i primi interventi della Corte costituzionale

L'impianto iniziale del codice di procedura penale, al momento della sua entrata in vigore nell'ottobre del 1989, prevedeva la possibilità di richiedere il giudizio abbreviato anche per i reati puniti con l'ergastolo. Non vi era alcuna preclusione in tal senso: il secondo comma dell'art. 442 c.p.p., infatti, si limitava a stabilire che «in caso di condanna, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita di un terzo. Alla pena dell'ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta».

Venne però quasi subito sollevata una questione di legittimità costituzionale da parte del giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, il quale dubitava della conformità all'art. 76 Cost. dell'art. 442, comma 2, c.p.p. nella parte in cui prevedeva che all'ergastolo fosse sostituita la pena di trenta anni di reclusione, in quanto in contrasto con l'art. 2, n. 53, della legge delega.

E la Corte costituzionale, con sentenza n. 176 del 1991, dichiarò l'illegittimità costituzionale per eccesso di delega dell'ultima parte del secondo comma dell'art. 442 c.p.p. L'art. 2, punto 53, della legge delega, infatti, indicava chiaramente come il campo di operatività del giudizio abbreviato riguardasse solo i reati punibili con pene detentive temporanee o pecuniarie e quindi, se il legislatore delegante avesse inteso estenderlo anche ai delitti punibili con l'ergastolo, avrebbe dovuto indicare il criterio sulla base del quale operare la sostituzione della pena.

Con l'ordinanza n. 163 del 1992 la Consulta tornò sul punto, precisando che l'inapplicabilità del giudizio abbreviato ai reati punibili con la pena dell'ergastolo non fosse in sé irragionevole, trattandosi di una scelta, non arbitraria, rientrante nella discrezionalità del legislatore. Inoltre, ritenne manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, punto 53, della legge delega, sollevata sul presupposto che al giudice per le indagini preliminari fosse possibile attribuire il potere, in sede di verifica dell'ammissibilità del giudizio abbreviato, di qualificare diversamente la fattispecie criminosa. Secondo la Corte, infatti, tale potere non spettava al giudice per le indagini preliminari, che poteva solo verificare la decidibilità allo stato degli atti, mentre la valutazione definitiva in ordine alla rituale richiesta del giudizio abbreviato (e quindi anche ai presupposti che determinano la riduzione di pena) era di competenza del giudice del dibattimento.

La legge Carotti, il “caso Scoppola” e le sue ripercussioni

La legge n. 479/1999 (cd. legge Carotti) reintrodusse, a distanza di quasi dieci anni dalla pronuncia della Corte costituzionale del 1991, la possibilità di chiedere il giudizio abbreviato anche in caso di delitti puniti con l'ergastolo. Ai sensi dell'art. 30, comma 1, lett. b), della legge, infatti, venne integrato il secondo comma dell'art. 442 con le parole “alla pena dell'ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta”.

Il legislatore del '99, tuttavia, non si preoccupò di dettare una disciplina transitoria. Ragion per cui con legge n. 144 del 2000 (di conversione del decreto legge n. 82 del 2000) si stabilì, all'art. 4-ter, che l'imputato nei cui confronti pendeva un processo per reati puniti con l'ergastolo poteva chiedere di essere giudicato nelle forme del rito abbreviato, purché ciò avvenisse, nel giudizio di primo grado, prima della conclusione dell'istruttoria dibattimentale e, nel giudizio di appello, solo qualora fosse stata disposta la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale e comunque prima della conclusione della stessa.

La norma transitoria dava adito a numerose perplessità: ai soggetti accusati di aver commesso reati di pari gravità, infatti, veniva attribuita, o negata, la possibilità di accedere al rito alternativo sulla base di un elemento processuale del tutto casuale come la chiusura dell'istruttoria dibattimentale; inoltre, si riservava un diverso trattamento agli imputati di reati puniti con la pena perpetua (cui veniva restituita la possibilità di chiedere il giudizio abbreviato fino alla chiusura dell'istruttoria dibattimentale) rispetto a chi era stato accusato di reati puniti con pene temporanee (ai quali tale possibilità veniva concessa solo nel caso in cui l'istruttoria non fosse ancora iniziata). Ma la Consulta ne accertò la conformità alla costituzione con la sentenza n. 99 del 2001 facendo leva sul carattere transitorio delle disposizioni impugnate, «sicché la disparità di trattamento denunziata dal rimettente risulta in realtà giustificata dalla diversa incidenza delle modifiche normative, rispetto al precedente regime di accesso al giudizio abbreviato».

La legge Carotti poneva un ulteriore motivo di incertezza, giacché non precisava se anche in caso di condanna all'ergastolo con isolamento diurno sarebbe stato possibile, per effetto della scelta del rito, applicare la pena di trenta anni di reclusione.

Si rese così necessario un nuovo intervento legislativo. L'art. 7 del decreto legge n. 341 del 2000, convertito nella legge n. 4 del 2001, dettò all'uopo una norma di interpretazione autentica: l'espressione “pena dell'ergastolo” contenuta nel secondo comma dell'art. 442 c.p.p. doveva essere riferita unicamente all'ergastolo senza isolamento diurno; venne inoltre aggiunto un ultimo periodo all'art. 442, comma 2, c.p.p. in base al quale «alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell'ergastolo».

Ma diversi dubbi presentava anche questo ulteriore intervento legislativo, soprattutto in relazione alla scelta di adottare una norma di interpretazione autentica, che produceva l'effetto di far retroagire una disposizione sfavorevole al reo in relazione al suo trattamento sanzionatorio.

Ed infatti sul punto intervenne la Corte europea dei diritti dell'uomo che, con la sentenza 17.9.2009 della Grande Camera, n. 10249, stabilì che l'Italia aveva violato gli artt. 6 (equo processo) e 7 (legalità in materia penale) della CEDU giacché aveva consentito che venisse condannato all'ergastolo, anziché alla pena di trent'anni di reclusione, il sig. Franco Scoppola, responsabile di omicidio aggravato della moglie, del tentato omicidio di uno dei suoi figli, di maltrattamenti in famiglia e di possesso illegale di arma da fuoco.

La vicenda processuale che ha condotto al pronunciamento dei giudici di Strasburgo merita di essere riportata, sia pure per sommi capi.

Lo Scoppola aveva commesso i gravissimi fatti di cui era accusato il 2.9.1999, allorquando le norme previste dal codice di rito non gli permettevano di chiedere il giudizio abbreviato (si è detto, infatti, che il secondo periodo del secondo comma dell'art. 442 c.p.p. era stato dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 176 del 1991). Il 2 gennaio 2000 era però entrata in vigore la legge Carotti, che aveva consentito l'accesso al rito sommario anche agli imputati di delitti puniti con l'ergastolo, ai quali in caso di condanna sarebbe stata comminata la pena di trent'anni di reclusione; per l'effetto, all'udienza preliminare tenutasi il 18.2.2000 lo Scoppola chiedeva di essere giudicato nelle forme dell'abbreviato. Il processo, dopo la celebrazione di varie udienze, si concludeva il 24.11.2000 con una condanna a trenta anni di reclusione.

La pronuncia veniva però impugnata dalla procura generale, che sosteneva che la norma di interpretazione autentica introdotta dal decreto legge n. 341 del 2000, avendo natura processuale, dovesse trovare applicazione anche nel caso specie. La Corte d'assise d'appello – con sentenza del 10.1.2002, poi confermata dalla Cassazione il 20.1.2003 – accoglieva il gravame e condannava così l'imputato alla pena dell'ergastolo senza isolamento diurno.

Il 24.3.2003 lo Scoppola adiva quindi la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e la Grande camera accoglieva all'unanimità la doglianza del ricorrente relativa all'art. 6, e a maggioranza (con undici voti favorevoli contro sei) quella relativa all'art. 7 CEDU, ordinando - comunque con decisione unanime - allo Stato italiano di «assicurare che l'ergastolo inflitto al ricorrente sia sostituito con una pena conforme ai principi enunciati nel paragrafo 154 della presente sentenza», vale a dire con la pena di trent'anni di reclusione.

Di conseguenza la Corte di cassazione, adita con ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p., provvedeva ad applicare allo Scoppola la pena di trent'anni di reclusione, facendo leva espressamente sull'art. 46 CEDU, che impone allo Stato di conformarsi alle pronunce rese dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Cass. pen., sez. V, 11 febbraio 2010, n. 16507).

Si poneva, tuttavia, il problema del trattamento da riservare ai condannati che, essendosi trovati in una situazione analoga a quella dello Scoppola, non avevano presentato ricorso a Strasburgo e che, pertanto, non avevano avuto la possibilità di veder mutata la pena dell'ergastolo alla quale erano stati condannati in quella della reclusione di anni trenta.

Della questione furono investite le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che si occuparono però di un'ipotesi distinta rispetto a quella su cui si era pronunciata la Corte EDU: nel caso di specie, infatti, l'imputato aveva avanzato la richiesta di rito sommario dopo l'entrata in vigore dell'art. 7 del decreto legge n. 341 del 2000. Di talché, «tra le diverse leggi succedutesi nel tempo, che prevedono la specie e l'entità della pena da infliggere all'imputato, in caso di condanna nell'ambito del giudizio abbreviato, per i reati astrattamente punibili con l'ergastolo, non può applicarsi la legge intermedia più favorevole, se durante la sua vigenza non sia stato chiesto l'accesso al rito speciale, ma tale scelta processuale sia intervenuta soltanto successivamente, nel vigore della legge posteriore che modifica quella precedente» (così Cass. pen., sez. un., 19 aprile 2012, n. 34233, Giannone). In definitiva, degli effetti della sentenza Scoppola potevano beneficiare solo gli imputati che, ritenuti responsabili di un reato punibile con l'ergastolo, avessero chiesto l'abbreviato fra il 2.1.2000 (data di entrata in vigore della legge Carotti) e il 24.11.2000 (data di entrata in vigore della norma di interpretazione autentica).

Il giorno stesso della sentenza Giannone, tuttavia, le Sezioni Unite sollevarono d'ufficio in un altro procedimento la questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 del decreto legge n. 341 del 2000 in relazione agli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. (Cass. pen., sez. un., n. 34472, Ercolano). E la Corte costituzionale si pronunciò sulla questione con sentenza n. 210 del 2013, dichiarando costituzionalmente illegittimo l'art. 7, comma 1, del decreto legge n. 341 del 2000 per violazione dell'art. 117, comma 1, Cost. Infatti, posto che le norme della CEDU integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dal primo comma dell'art. 117 Cost. (nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali), e posto altresì che il paragrafo 1 dell'art. 7 della CEDU sancisce non solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche quello della retroattività della legge penale meno severa, l'art. 7, comma 1, del decreto legge n. 341 del 2000 finiva con il determinare, con il suo effetto retroattivo, la condanna all'ergastolo di imputati ai quali sarebbe stato applicabile il precedente testo dell'art. 442, comma 2, c.p.p. e che pertanto avrebbero dovuto essere condannati alla pena di trenta anni di reclusione. Una volta restituiti gli atti, le Sezioni Unite stabilirono quindi il principio secondo cui il giudice dell'esecuzione, investito della richiesta di sostituzione della pena dell'ergastolo con quella di anni trenta di reclusione, deve provvedere alla sollecitata sostituzione ove riconosca il diritto del condannato a beneficiare di tale trattamento più favorevole (Cass. pen., sez. un., 24 ottobre 2013, n. 18821, Ercolano).

La legge n. 33 del 2019 e l'attuale quadro normativo

Con l'entrata in vigore della legge 12.4.2019, n. 33, il legislatore ha deciso di eliminare la possibilità di celebrare il giudizio abbreviato nel caso in cui vengano contestati reati puniti con l'ergastolo.

Le ragioni di questa scelta (che costituisce un ripensamento rispetto a quanto stabilito vent'anni prima con la legge Carotti) si spiegano con l'esigenza di evitare, in caso di commissione di delitti di grave allarme sociale, l'applicazione di pene ritenute troppo miti dall'opinione pubblica. Ciò è quanto emerge a chiare lettere della relazione di accompagnamento alla proposta di legge a firma Molteni più altri (AC 392 “Modifiche agli articoli 438 e 442 del codice di procedura penale. Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell'ergastolo”) ove si afferma testualmente che «la presente proposta di legge intende stabilire l'impossibilità di ricorrere a tale rito per i delitti più gravi puniti con l'ergastolo, come l'omicidio volontario … desta sconcerto l'applicazione, molte volte, di pene notevolmente ridotte rispetto alla pena perpetua inizialmente prevista dal codice penale».

Non è forse superfluo ricordare, a tal riguardo, come l'omicidio volontario non sia in realtà punito con l'ergastolo, giacché l'art. 575 c.p. prevede una pena non inferiore ad anni ventuno, mentre la pena perpetua è comminata solo in presenza delle aggravanti previste dagli artt. 576 e 577. Ma tant'è: il legislatore ha preferito dettare una norma che ha finito con l'intasare i ruoli delle corti d'assise e che, in ogni caso, non ha determinato la riduzione del numero di omicidi commessi ogni anno nel nostro paese.

La disciplina prevista dal codice di procedura penale, così come appunto da ultimo novellata, risulta pertanto la seguente.

Il comma 1-bis dell'art. 438 (introdotto dall'art. 1, comma 1, lett. a) della legge n. 33 del 2019) dispone che «non è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo». Il comma 6 dello stesso articolo (come sostituito dall'art. 1, comma 1, lett. b) della legge n. 33 del 2019) prevede poi che, in caso di inammissibilità ai sensi del comma 1-bis, la richiesta di abbreviato può essere riproposta fino al momento della formulazione delle conclusioni dell'udienza preliminare (artt. 421 e 422). Per effetto di quanto dispone il primo periodo del comma 6-ter dell'art. 438 (anch'esso introdotto dalla legge n. 33 del 2019), infine, «qualora la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell'udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile ai sensi del comma 1-bis, il giudice, se all'esito del dibattimento ritiene che per il fatto accertato sia ammissibile il giudizio abbreviato, applica la riduzione di pena ai sensi dell'art. 442, comma 2».

Mette in conto evidenziare, inoltre, come gli stessi principi si applichino anche nel caso in cui si proceda con il giudizio immediato: la richiesta di giudizio abbreviato, infatti, viene proposta in tale ipotesi nelle forme e nei termini previsti dall'art. 458 e, qualora il giudice per le indagini preliminari la ritenga inammissibile ai sensi del comma 1-bis dell'art. 438, lo sconto di pena potrà sempre essere recuperato all'esito del giudizio dibattimentale (il secondo comma dell'art. 458, infatti, richiama espressamente il comma 6-ter dell'art. 438).   

I nuovi interventi della Consulta

La Consulta è stata in più occasioni investita di questioni di costituzionalità inerenti le modifiche apportate all'impianto codicistico dalla legge n. 33 del 2019.

Con la sentenza n. 260 del 2020, in particolare, sono state dichiarate inammissibili e non fondate diverse questioni sollevate dai giudici dell'udienza preliminare dei Tribunali di La Spezia e Piacenza, nonché dalla Corte d'Assise di Napoli, che si dolevano della contrarietà alla Costituzione del comma 1-bis dell'art. 438 c.p.p. sotto vari profili.

Secondo il Giudice delle leggi, infatti, non sussiste la violazione dell'art. 3 Cost. giacché non si può invocare l'incostituzionalità di una norma processuale quando, in realtà, la lamentata disuguaglianza consegue al diverso trattamento sanzionatorio stabilito dal legislatore per determinati reati; parimenti, in relazione alla supposta violazione dell'art. 24 Cost., non sussiste un diritto dell'imputato ad accedere a tutti i riti alternativi previsti dal codice di procedura penale, posto che il legislatore può disporre che l'accesso ai riti speciali avvenga a determinate condizioni; neppure si può ritenere fondata la censura secondo cui la preclusione al rito sommario può derivare da una scelta discrezionale del pubblico ministero, e ciò in quanto la legge n. 33 del 2019 prevede un meccanismo di recupero del giudizio abbreviato all'esito del dibattimento; infine, anche l'invocata lesione del principio della ragionevole durata del processo non ha motivo d'essere, posto che la dilatazione dei tempi che deriva dalla celebrazione dei processi in corte di assise trova adeguato contraltare proprio nello svolgimento di un dibattimento pubblico, caratterizzato da maggiori garanzie rispetto al rito camerale.

Con la sentenza n. 208 del 2021, poi, il comma 1-bis dell'art. 438 c.p.p. è stato ritenuto conforme all'art. 111, comma 2, Cost., nella parte in cui non prevede che l'imputato infermo di mente, riconosciuto incapace di intendere e di volere al momento del fatto, con perizia accertata in sede di incidente probatorio, possa chiedere di definire il processo con giudizio abbreviato nel caso di reato astrattamente punibile con la pena dell'ergastolo. Secondo la Corte, infatti, non può qualificarsi in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà la scelta legislativa di prevedere comunque la celebrazione di un pubblico dibattimento per accertare il fatto e ascrivere le relative responsabilità, ferma restando la possibilità per la corte d'assise di celebrare e concludere il dibattimento in modo spedito, sulla base dell'eventuale consenso dell'imputato all'acquisizione degli atti di indagine al fascicolo del dibattimento.

Con la sentenza n. 214 del 2021 è stata esclusa la contrarietà sempre del comma 1-bis dell'art. 438 c.p.p. all'art. 3 Cost. nella parte in cui non consente all'imputato di un delitto astrattamente punibile con l'ergastolo di essere giudicato con rito abbreviato quando sia possibile ipotizzare, sulla base di dati certi relativi al fatto o alla persona dell'imputato, l'irrogazione di una pena diversa dall'ergastolo in caso di condanna. All'uopo è stato espressamente richiamato un passaggio della sentenza n. 260 del 2020, ove la Corte aveva ritenuto che la previsione della pena dell'ergastolo esprime «un giudizio di speciale disvalore della figura astratta del reato che il legislatore, sulla base di una valutazione discrezionale che non è qui oggetto di censure, ha ritenuto di formulare».

Con la sentenza n. 207 del 2022, ancora, si riproponeva la questione già sollevata con la sentenza n. 208 del 2021, ma questa volta facendo riferimento al seminfermo di mente. Il rimettente, in particolare, si doleva del fatto che analoga preclusione non è prevista per l'imputato minorenne per i medesimi delitti, il quale può invece sempre accedere a tale rito alternativo. Tuttavia, la Consulta ha rilevato che, in relazione alla disciplina del giudizio abbreviato, tra seminfermi di mente e minorenni non sussiste alcuna disparità di trattamento, perché in linea generale il trattamento penalistico dei minorenni si diversifica in maniera incisiva rispetto a quello dei maggiorenni e, pertanto, i due sistemi non possono essere messi in comparazione.

Infine,con sentenza n. 2 del 2025, è stato affermato, sulla scorta delle considerazioni già espresse rispettivamente nelle sentenze nn. 163 del 1992 e 260 del 2020, che l'inapplicabilità del giudizio abbreviato ai reati punibili con la pena dell'ergastolo non è in sé irragionevole e che la scelta legislativa di far dipendere l'accesso al giudizio abbreviato dalla sussistenza di una circostanza a effetto speciale esprime un giudizio di disvalore della fattispecie astratta superiore a quello della corrispondente fattispecie non aggravata (e questo a prescindere dalla sussistenza nel caso concreto di circostanze attenuanti, che il giudice può comunque applicare all'esito del dibattimento in caso di condanna).

In conclusione

Non vi è dubbio che il rapporto fra giudizio abbreviato ed ergastolo sia stato nel tempo alquanto tormentato.

Da un lato, infatti, è sempre avvertita l'esigenza di estendere il beneficio premiale previsto dal rito anche ai casi di maggiore gravità, e ciò per evidenti ragioni di economia processuale, soprattutto in presenza di vicende di agevole ricostruzione probatoria (che non richiederebbero, quindi, la verifica dibattimentale) ovvero quando è interesse dello stesso imputato rinunciare al diritto di difendersi provando (si pensi al caso, assai frequente nella pratica, del reo confesso).

Dall'altro, tuttavia, non poche perplessità ha destato la possibilità di celebrare processi per reati assai gravi dinanzi a un giudice monocratico e in camera di consiglio, rinunciando così a tutte le garanzie offerte dal dibattimento.

Di qui l'andamento ondivago del legislatore che, da ultimo, ha ritenuto di inibire definitivamente l'accesso al giudizio abbreviato nel caso in cui si proceda per reati punti con la pena dell'ergastolo, prevedendo comunque delle ipotesi di recupero “postumo” dello sconto di pena.

Orbene, si può dubitare dell'opportunità dell'attuale assetto normativo, che è ispirato essenzialmente a ragioni punitive e che ha determinato un indubbio rallentamento nella definizione dei procedimenti per i reati più gravi. Tuttavia la Consulta, più volte compulsata sul punto, ha sempre ritenuto conforme al dettato costituzionale la disciplina introdotta nel 2019. Occorre quindi prenderne atto … almeno fino a quando il legislatore non cambierà nuovamente idea.  

Riferimenti

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario