Azione antiscriminatoria nel codice delle pari opportunità

02 Luglio 2025

L'azione antidiscriminatoria individuale ex art. 38 CPO prevede la tipizzazione delle pronunce di condanna adottabili, distinguendo la pronuncia inibitoria, con ordine di cessazione del comportamento illegittimo, ripristinatoria, con ordine di rimozione degli effetti e risarcitoria, che consente la compensazione del danno, anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita. Mentre le pronunce inibitoria e ripristinatoria sono conseguenza automatica dell'accertamento della natura discriminatoria della condotta e non sono vincolate, sotto il profilo della possibilità di loro adozione e di determinazione del contenuto precettivo, a un'espressa domanda di parte, la pronuncia risarcitoria è soggetta al principio dispositivo e alle ordinarie regole di accertamento e determinazione del danno.

La tutela antidiscriminatoria sul luogo di lavoro

La tutela antidiscriminatoria sul luogo di lavoro è caratterizzata da un quadro normativo asistematico e frastagliato nel quale principi giuridici, frutto di elaborazione interna, si sovrappongono ad altri di promanazione sovranazionale, la cui composizione e razionalizzazione è operazione di notevole complessità.

Senza pretese di completezza, occorre prendere le mosse dalla Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, attuata nel nostro ordinamento dal d.lgs. n. 216/2003, il cui art. 2, comma 1, definisce il concetto di parità di trattamento, alla stregua di assenza di discriminazione diretta o indiretta a causa di una pluralità di fattori, quali religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale.

Completano il quadro il d.lgs. n. 198/2006, id est il Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna (CPO) che, all'art. 25, rilancia la nozione di discriminazione diretta o indiretta, realizzata sulla base del sesso, dello stato di gravidanza, della maternità o paternità, anche adottiva, o in ragione della titolarità o esercizio dei relativi diritti, estendendo la nozione di molestie, di cui alla Direttiva 2000/78/CE, a quelle aventi connotazione sessuale, e il concetto di discriminazione al rifiuto di sottostarvi. Meritano, inoltre, menzione, il d.lgs. n. 215/2003, che contempla tra i fattori discriminanti la razza e l'origine etnica, e la legge n. 67/2006, che individua quale fattore di discriminazione la disabilità.

Sotto il profilo processuale la pluralità di disposizioni regolanti la nozione di discriminazione riconduce a due fondamentali modelli di intervento, vale a dire quello previsto e regolato dall'art. 38 del Codice delle Pari Opportunità (d.lgs. n. 198/2006) e quello disciplinato dall'art. 28 d.lgs. n. 150/2011.

Il primo appronta il fondamentale mezzo di tutela da utilizzare per le discriminazioni di genere in ambito lavorativo. Al procedimento di cui all'art. 28 d.lgs. n. 150/2011 prestano rinvio le norme atte a prevenire fenomeni discriminatori in materia di razza, provenienza e origine etnica (art. 44 d.lgs. n. 286/1998, artt. 4 e 5 d.lgs. n. 215/2003), religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale (ex art. 3 l. n. 67/2006), o di genere nell'accesso a beni e servizi (art. 55-quinquies d.lgs. n. 198/2006).

Ferma, inoltre, restando la vigenza e perdurante applicazione dei procedimenti contemplati dagli artt. 15 e 16 St. lav., da azionarsi a mezzo di ricorso ordinario ex art. 414 e ss. c.p.c., restano escluse le controversie relative alla violazione dei divieti di discriminazione nell'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e nelle condizioni di lavoro di cui al Capo II del Codice delle Pari Opportunità che vanno azionate a mezzo del procedimento ordinario di cui agli artt. 414 ss. c.p.c., quelle in tema di impugnazione di licenziamenti discriminatori, regolati sotto il profilo sostanziale dagli artt. 18, comma 1, legge n. 300/1970, 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 e, sotto il profilo processuale, abrogato il rito speciale di cui all'art. 1, comma 47 ss., legge n. 92/2012, dall'art. 441-quater c.p.c., con ambivalente facoltà di agire per le vie ordinarie o con uno dei modelli processuali speciali sopra individuati.

Le azioni contro la discriminazione di genere

Il primo assetto complesso di tutele processuali è, dunque, quello predisposto dagli artt. 36 ss. d.lgs. n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità), in relazione alle condotte configuranti discriminazione di genere.

L'art. 36 del decreto prevede, difatti, la possibilità di agire in giudizio per la dichiarazione della natura discriminatoria delle condotte in violazione dei divieti di cui al Capo II del medesimo titolo, o di qualunque discriminazione nell'accesso al lavoro, promozione, formazione professionale, condizioni di lavoro compresa la retribuzione e le forme pensionistiche complementari collettive.

Il Capo II, cui la disposizione fa riferimento, estende l'ambito di applicazione della discriminazione alla prestazione lavorativa, progressione di carriera, accesso alle prestazioni previdenziali e agli impieghi pubblici, nonché al licenziamento per causa di matrimonio.

Si ritiene, come detto, possibile avvalersi degli strumenti processuali di cui all'art. 38 anche per censurare un licenziamento che si ritenga discriminatorio al di là della causa di matrimonio, tesi avvalorata dal disposto dell'art. 441-quater c.p.c. che fa salve le azioni speciali in tema di impugnativa dei licenziamenti discriminatori, ferma restando la verifica di ampiezza e limiti della cognizione, laddove si scelga di agire ai sensi dell'art. 38 d.lgs. n. 198/2006 o dell'art. 28 d.lgs. n. 150/2011.

Le disposizioni prevedono quattro tipologie procedurali, segnatamente il procedimento individuale e quello collettivo, di natura sommaria e ordinaria, e una riserva di azione dinanzi al giudice amministrativo, e ascrivono un ruolo di preminente rilievo ai consiglieri di parità della città metropolitana e degli enti di area vasta, legittimati a intervenire nei giudizi o promuoverli su delega del soggetto discriminato o, in via autonoma, nel caso di rilievo collettivo della discriminazione (art. 37).

Dall'analisi del dato normativo, ed in particolare della diade costituita dall'art. 37 (azione collettiva) e art. 38 (azione individuale), si osserva, in prima approssimazione, una tipizzazione delle pronunce adottabili.

Nell'azione individuale il possibile esplicito contenuto della pronuncia giudiziale di condanna (macro-categoria) è inibitorio (cessazione del comportamento illegittimo), ripristinatorio (rimozione degli effetti) e risarcitorio (risarcimento del danno, anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita).

Nell'ambito dell'art. 37, laddove la discriminazione abbia natura collettiva, la pronuncia ripristinatoria e inibitoria trova un'ulteriore specifica declinazione: il piano di rimozione delle discriminazioni accertate, quando la specifica condotta di cessazione del comportamento e rimozione degli effetti non sia limitato ad una specifica posizione, come nell'azione individuale, ma a una situazione plurisoggettiva, attraverso specifiche determinazioni organizzative.

Si registra un surplus definitorio con riferimento alla pronuncia risarcitoria: l'adozione della stessa è legata a una specifica domanda di parte («se richiesto»), viene specificato che il danno risarcibile non è limitato a quello patrimoniale e, soprattutto, che il risarcimento è accordabile soltanto nei limiti della prova giudizialmente fornita.

Il convitato di pietra è rappresentato dall'accertamento della violazione o della discriminazione, in rapporto di pregiudizialità logico giuridica rispetto all'eventuale pronuncia di condanna: se non c'è discriminazione o violazione di legge non può esserci condanna, in alcuna delle sue tre declinazioni.

Le pronunce inibitoria e ripristinatoria 

Il primo problema è la verifica dell'ampiezza dei poteri del giudice, se esista cioè un potere ufficioso che consenta, dinanzi all'accertamento della discriminazione, che eventualmente transiti per l'assolvimento dell'onere probatorio sulla base della regola di facilitazione (o di inversione dell'onere) di cui all'art. 40 CPO, di procedere all'adozione di una condanna inibitoria e ripristinatoria, ovvero di un ordine di cessazione del comportamento discriminatorio e rimozione dei suoi effetti, in assenza di un'esplicita domanda della parte ricorrente la quale, eventualmente, si sia limitata alla richiesta di accertamento della discriminazione.

Il dubbio deriva dall'analisi della formulazione letterale della disposizione dell'art. 38 CPO che sembra annettere all'accertamento della discriminazione, in modo quasi automatico, le conseguenze ripristinatorie o inibitorie mentre, con riferimento alla quota risarcitoria, consente al giudice di comminare la condanna soltanto «se richiesto».

Secondo una prima impostazione l'indicazione della necessità della richiesta di parte, nel caso di domanda risarcitoria, non è da interpretarsi nel senso che quella risarcitoria sia l'unica delle tre declinazioni dell'azione di condanna soggetta al principio dispositivo, ma mira a escludere la categoria dei c.d. punitive damages, ovvero dei danni con funzione esclusivamente deterrente o special-preventiva, che prescindono dalla prova di un detrimento patrimoniale o di altra natura a carico del danneggiato e possono essere liquidati dal giudice d'ufficio, senza necessità di domanda di parte, sia pure in un contesto in cui al danno non patrimoniale, liquidato in controversie in materia di discriminazione, viene ascritta una concorrente funzione dissuasiva (Cass. civ., sez. un., 21 luglio 2021, n. 20819) oltre che reintegratoria o ripristinatoria che, tuttavia, non pregiudica la necessità di una domanda di parte.

L'adozione di ciascuna delle tipologie di pronuncia previste dalla norma (e, dunque, accertamento della condotta, inibitoria della stessa, rimozione degli effetti della discriminazione e risarcimento del danno) sarebbe, a seguire questa tesi, condizionata alla presenza di una specifica domanda di parte.

Quella di cui all'art. 38 CPO è, tuttavia, una disposizione a elevato contenuto protettivo, nella quale le esigenze di effettività della tutela del soggetto discriminato impongono di ritenere attivabili i meccanismi di tutela indipendentemente dalla domanda di parte che, fatto salvo quanto si dirà in tema di pronuncia risarcitoria, può essere teoricamente limitata all'accertamento della discriminazione. La rigida applicazione del principio dispositivo trova, dunque, temperamento nella natura della norma e nel bene giuridico protetto.

Del resto, la stessa risalente giurisprudenza, in tema di vizio di ultrapetizione della pronuncia, ovvero di violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, afferma che «nell'interpretazione della domanda, il giudice non deve arrestarsi alla formulazione letterale delle deduzioni e richieste contenute nell'atto processuale, ma deve avere riguardo al loro contenuto sostanziale ed all'intento perseguito dalla parte» (Cass. civ., sez. lav., 24 marzo 1987, n. 2857).

È evidente che l'interesse sotteso all'attivazione del rimedio antidiscriminatorio di cui all'art. 38 CPO non possa dirsi limitato al mero accertamento della natura discriminatoria della condotta maturata in ambito lavoristico o assistenziale, essendo senz'altro esteso alla pronta inibizione del comportamento lesivo e all'altrettanto immediata rimozione dei suoi effetti.

Se, da un lato, appare dunque ragionevole concludere nel senso che il giudice, investito della controversia antidiscriminatoria, possa ordinare la cessazione della condotta e la rimozione degli effetti anche in assenza di un'esplicita domanda di parte, occorre verificare se egli possa, indipendentemente dalla domanda o al di là della stessa, definire il contenuto precettivo degli ordini, individuando gli specifici adempimenti mirati non tanto alla cessazione della condotta, che appare essere un ordine self executing, quanto alla rimozione degli effetti, sì da rendere l'ordine concretamente eseguibile ed efficace, operando sulla base della piattaforma conoscitiva versata agli atti.

La formulazione della norma richiama quella dell'art. 28 legge n. 300/1970, nell'ambito della quale, laddove si accerti che il datore di lavoro abbia posto in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, ordini al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.

L'ordinamento laburistico conosce istituti in cui il giudice non è vincolato dal contenuto assertivo e precettivo che le parti abbiano inteso conferire alla domanda, nei limiti in cui ritenga l'assetto di parte accoglibile ed efficace, come nel caso dell'art. 10 d.lgs. n. 81/2015, in materia di omessa collocazione temporale dell'orario del lavoratore part-time, che autorizza il giudice a determinare «le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale, tenendo conto delle responsabilità familiari del lavoratore interessato e della sua necessità di integrazione del reddito mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro».

Le pronuncia ripristinatoria dell'art. 38 appare, dunque, alla stregua di contenitore generale, il cui contenuto è, di volta in volta, rinvenibile negli istituti sostanziali di diritto del lavoro, della previdenza e dell'assistenza che costituiscono, di volta in volta, l'ubi consistam della discriminazione.

Il contenuto specifico dell'ordine sarà in via preferenziale definito sulla base delle domande delle parti, nulla impedendo tuttavia al giudice di adottare provvedimenti di ordine ripristinatorio che prescindano dalle specifiche domande, sulla base degli elementi di fatto acquisiti nel corso del processo, con il limite dell'intangibilità della sfera organizzativa aziendale, se non nei limiti della possibilità di ripristino di una condizione organizzativa preesistente alla condotta discriminatoria.

La pronuncia risarcitoria

Diversa è la situazione della pronuncia di natura risarcitoria che, innanzitutto, è subordinata alla specifica domanda di parte, e all'assolvimento degli oneri probatori, secondo le regole ordinarie. Sul punto appare opportuno precisare che la regola di facilitazione dell'onere probatorio (o di inversione dello stesso, secondo altra teoria), previsto dall'art. 40 CPO, non si applica alla dimostrazione del danno, ma soltanto a quello della discriminazione, dovendosi applicare al danno gli ordinari criteri di prova.

Il danno può essere, innanzitutto, di natura patrimoniale. La funzione del risarcimento è, in questo caso, confinata alla reintegrazione della sfera patrimoniale, dando luogo all'applicazione delle ordinarie regole sostanziali e processuali (art. 2697 c.c., art. 1226 c.c., art. 432 c.p.c.) con riferimento alla duplice fase dell'accertamento e della liquidazione.

La tutela risarcitoria nell'ambito del diritto antidiscriminatorio esorbita dalla mera funzione riparativa: da tempo la giurisprudenza ne riconosce la natura polifunzionale. La responsabilità risarcitoria non ha solo la funzione di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione/discriminazione: accanto alla funzione compensativo-riparatoria, è riconosciuta anche la funzione preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva.

Si è, in punto di prova dell'an, di recente affermata la sufficienza prova di una condotta discriminatoria lesiva della dignità umana ed intrinsecamente umiliante per il destinatario, in ragione: «a) della specifica disciplina antidiscriminatoria, che espressamente prevede il risarcimento del danno non patrimoniale; b) della risarcibilità in via equitativa del danno, in caso di lesione di diritti costituzionalmente garantiti; c) del carattere anche dissuasivo del risarcimento, al fine di garantire l'effettività dei diritti eurounitari; d) della possibilità che il danno venga provato attraverso presunzioni, valorizzando la maggiore o minore gravità dell'atto discriminatorio e le condizioni che l'hanno determinato» (Cass. civ., sez. lav., 11 febbraio 2025, n. 3488).

Il risarcimento per danni non patrimoniali scaturiti da discriminazioni non si limita, dunque, al mero compenso per il disagio subìto dall'individuo ma è strumento di tutela della dignità umana e di deterrenza contro replicazioni di atti discriminatori. Il giudice deve tener conto della specificità e gravità dell'atto discriminatorio e dei suoi effetti sul lavoratore, esercitando un potere valutativo che pur essendo discrezionale, non deve prescindere dalla funzione dissuasiva intrinseca del risarcimento.

Sotto il profilo del quantum, la concorrente funzione dissuasiva comporta, secondo alcuni, la necessità di fare applicazione analogica dei parametri di quantificazione della sanzione amministrativa prevista dall'art. 11 legge n. 689/1981, relativi alla «gravità della violazione, all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche» (Trib. Napoli, sez. lav., 26/11/2021, n. 5192) o, secondo altra impostazione, del criterio relativo all'ammenda prevista dall'art. 38, comma 4, CPO.

In conclusione

Le pronunce di natura inibitoria e ripristinatoria, contemplate dall'art. 38 CPO, conseguono automaticamente alla pronuncia di accertamento della natura discriminatoria della condotta, e non sono vincolate, sotto il profilo della possibilità di loro adozione e di determinazione del contenuto precettivo, a un'espressa domanda di parte. La pronuncia inibitoria è, invece, self-executing, e non necessita della specificazione del suo contenuto.

Il contenuto della pronuncia ripristinatoria (rimozione degli effetti) va, invece, determinato in modo specifico, a pena di materiale ineseguibilità. Occorre fare riferimento agli istituti tipici del diritto del lavoro e della previdenza, di volta in volta applicabili a seconda degli effetti della condotta censurata (es: modifica dell'orario di lavoro, modalità di fruizione dei congedi parentali, dequalificazione professionale, licenziamento, erogazione dell'indennità di maternità).

Ciascuno degli istituti segue le regole sostanziali sue proprie (es. decadenza impugnativa dei licenziamenti, decadenza e prescrizione indennità di maternità), la cui applicazione non è preclusa dalla natura speciale del procedimento. Il contenuto specifico della pronuncia ripristinatoria può essere definito dal giudice sulla base degli elementi emersi e non è, necessariamente, vincolato alla domanda di parte e alle specifiche indicazioni in esso contenute che sono, tuttavia, assolutamente fondamentali a garantire l'effettività del provvedimento e la massima aderenza possibile alla situazione sostanziale.

Diversa è la situazione per quanto concerne la pronuncia di natura risarcitoria, subordinata alla specifica domanda di parte, e all'assolvimento degli oneri probatori, secondo le regole ordinarie, tenendo conto della sua natura polifunzionale (compensativo-riparatoria, deterrente o dissuasiva e sanzionatorio-punitiva) che giustifica elementi di facilitazione dell'onere probatorio diversi da quello previsto dall'art. 40 CPO, potendosi ricorrere alla prova presuntiva.

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