Per la confisca del denaro occorre la prova del nesso di diretta derivazione dallo spaccio di stupefacenti
Leonardo Filippi
09 Luglio 2025
La Corte di cassazione esclude la confisca del denaro rinvenuto nella disponibilità dell'imputato condannato per detenzione di sostanze stupefacenti.
La vicenda
Nel caso in esame all'imputato era stata contestata la detenzione di sostanze stupefacenti perché, in esito ad una perquisizione, era stata rinvenuta una ingente somma di denaro, bilancini di precisione, macchinari per sottovuoto ed appunti manoscritti riportanti indicazioni di nomi e cifre ritenute relative allo “spaccio” delle stesse sostanze.
In primo grado, svoltosi con giudizio abbreviato, l'imputato era stato condannato ed era stata disposta la confisca ex art. 240 c.p. dellasomma di euro 86.980 rinvenuta nella disponibilità del ricorrente e ritenuta profitto del reato.
La Corte di appello aveva confermato integralmente la sentenza di primo grado e l'imputato aveva proposto ricorso in Cassazione, deducendo, tra gli altri motivi, la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla statuizione della confisca della somma di denaro in quanto la Corte territoriale non avrebbe motivato in ordine al nesso tra la somma di denaro e il reato contestato, consistente nella mera detenzione della cocaina e il ricorso è stato accolto proprio in riferimento a questo motivo.
La confisca “diretta” del profitto del reato
Com'è noto, l'art. 240, comma 1, c.p. prevede, in generale, la confisca discrezionale, in caso di condanna, delle «cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto». Ovviamente, il prodotto o il profitto deve derivare dal reato per il quale è intervenuta condanna, nel caso di specie il reato di detenzione a fini spaccio di stupefacenti. Ma dal reato di detenzione non può derivare alcun provento, che invece è di sicura derivazione dal diverso reato di spaccio di stupefacenti, per il quale non vi è stata alcuna condanna.
In tema di reati in materia di sostanze stupefacenti, il legislatore ha adottato una disposizione speciale, prevista dall'art. 73, comma 7-bis t.u. stupefacenti, secondo il quale, in caso di condanna o di pena patteggiata è ordinata la confisca delle cose che ne sono il profitto o il prodotto, salvo che appartengono a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, fatta eccezione per il delitto di cui all'art. 73, comma 5, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto. Anche secondo la disposizione speciale, l'oggetto della confisca deve riguardare il provento del reato per il quale è intervenuta condanna.
Si ricorderà che, in argomento, le Sezioni unite avevano affermato due principi di diritto: «Il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può applicare, a norma dell'art. 240, comma 2, n. 1, c.p., la confisca del prezzo del reato e, a norma dell'art. 322-ter c.p., la confisca del prezzo o del profitto del reato sempre che si tratti di confisca diretta e vi sia stata una precedente pronuncia di condanna, rispetto alla quale il giudizio di merito permanga inalterato quanto alla sussistenza del reato, alla responsabilità dell'imputato ed alla qualificazione del bene da confiscare come profitto o prezzo del reato» - «Qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità deve essere qualificata come confisca diretta: in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato» (Cass. pen., sez. un., 26 giugno 2015, n. 31617, Lucci). Anche le Sezioni unite avevano perciò ribadito la necessità che la confisca del provento del reato derivi direttamente dalla condotta oggetto del reato per cui è intervenuta condanna.
Pertanto, la sentenza in commento afferma correttamente che non è ammessa la confisca del profitto del reato se la condanna riguarda la detenzione (e non lo spaccio) di sostanze stupefacenti perché la somma di denaro rinvenuta nella disponibilità dell'imputato non costituisce il profitto del reato, in quanto non rappresenta il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell'illecito.
La sentenza in esame si allinea, sul punto, alla giurisprudenza unanime che esclude la confiscabilità delle somme di denaro rinvenute nella disponibilità dell'imputato nell'ipotesi in cui il reato per cui viene pronunciata condanna sia la detenzione di sostanze stupefacenti e non anche precedenti condotte di “spaccio” alle quali siano eventualmente ricollegabili dette somme: tra i tanti precedenti conformi, v. Cass. pen., sez. IV, n. 20130/2022; Cass. pen., sez. IV, n. 29176/2024. Si era anche precisato che il denaro può essere confiscato solo quando si provi che costituisca il prezzo del reato di detenzione cioè quando risulti dimostrato che sia il corrispettivo ricevuto dall'imputato da terzi per la detenzione della sostanza stupefacente (Cass. pen., sez. IV, n. 4179/2024). In altra pronuncia si era ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza di “patteggiamento” che, sull'accordo delle parti, abbia disposto la confisca del denaro quale profitto del reato di illecita detenzione di sostanza stupefacente, trattandosi di misura di sicurezza illegale ex art. 448, comma 2-bis c.p.p. in quanto applicata in violazione dei presupposti e limiti stabiliti dalla legge (Cass. pen., sez. VI, n. 2762/2023).
La confisca “allargata” o “per sproporzione”
Il fatto che, nel caso di condanna per mera detenzione di sostanze stupefacenti, non sia ammessa la confisca “diretta” del provento del reato non esclude però il ricorso alla confisca “allargata” (detta anche “per sproporzione”).
Come risaputo, l'art. 240-bis c.p., applicabile anche al reato di mera detenzione di sostanze stupefacenti in forza del richiamo operato dall'art. 85-bis t.u. stupefacenti, stabilisce che, in caso di condanna o di applicazione della pena per alcuni “reati-spia”, è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica.
In altri termini, l'art. 240-bis c.p. si caratterizza per una presunzione (relativa)di illecita accumulazione di beni, per cui, in presenza di una sproporzione patrimoniale ingiustificata, si presume che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla sua condanna (o applicazione di pena), ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni sproporzionati di cui egli dispone. La giurisprudenza opportunamente tempera la presunzione richiedendo una “ragionevolezza temporale” tra l'acquisizione della ricchezza sproporzionata e il “reato-spia” (Cass. pen., sez. un., 26 giugno 2014, n. 4880/2015, Spinelli, che esige che il momento di acquisizione del bene non risulti talmente lontano dall'epoca di commissione del “reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da un'attività illecita).
La Corte di cassazione ha perciò annullato la sentenza impugnata, limitatamente alla statuizione della confisca del denaro in sequestro, con rinvio ad altra sezione di Corte di appello per verificare se sussistano i presupposti per la confisca “allargata”.
Conclusioni
La sentenza in esame deve essere condivisa perché fa buon governo delle disposizioni di legge in materia di confisca, distinguendo correttamente tra quella “diretta” e quella “allargata” ed escludendo un'applicazione della prima in mancanza di una prova diretta che il denaro sequestrato sia provento del reato di detenzione di sostanze stupefacenti.
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