Quel che resta di Cesare e ciò che appartiene a Dio. Dall’ “autodeterminazione del paziente” alla inammissibilità del referendum sull’omicidio del consenziente

Pasquale Mautone
05 Agosto 2025

Il presente Focus approfondisce la disciplina della L. n. 219/2017 ed è strutturato sulla disciplina del “consenso informato” e sul testamento biologico chiamato “disposizioni anticipate di trattamento”.

Il suicidio assistito è un tema su cui sono fortemente radicate opinioni diverse, ove nel lungo e prolungato dibattito sul “fine vita” tra laici e cattolici - da qui il titolo del Focus Quel che rimane di Cesare e ciò che appartiene a Dio” - l'ingiustificabile immobilismo del Parlamento italiano su un tema così eticamente sensibile, porta con se il rischio di veder emanate venti leggi regionali a partire dalla Regione Toscana ed Emilia-Romagna che sono già intervenute su tale delicato profilo.

Ma in subiecta materia, per dirla con Cesare Mirabelli “Sul fine vita le Regioni non hanno competenza. Questa non è una competenza regionale, ma statale, perché si tratta di disciplinare effetti relativi ai diritti fondamentali della persona - e non l'organizzazione sanitaria - una disciplina che necessariamente deve essere unitaria nel Paese”.

Il presente contributo nasce dall'intervento in Audizione di Pasquale Mautone del 18 marzo 2025 sul tema del “fine vita” presso la “IV Commissione assembleare Politiche per la salute e politiche sociali” dell'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna.

Consenso informato, Dat e diritto all'“autodeterminazione del paziente” (l. n. 219/2017)

Preliminarmente su “Audizione sull'operatività delle DGR nn. 194 e 333 del 2024”, sia consentito un ringraziamento per il gradito invito al Presidente della “IV Commissione assembleare Politiche per la salute e politiche sociali”, dell'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, on.le Gian Carlo Muzzarelli, e rivolgo un attestato di stima all'Assessore alle Politiche per la Salute della Regione Emilia-Romagna, dott. Massimo Fabi.

In questo percorso, vedremo lo sviluppo della intera delicata vicenda, passando dalla sentenza Englaro, ai viaggi accompagnatori di Cappato in Svizzera sul “fine vita”, fino all'intervento della Consulta sulla inammissibilità del referendum sull'omicidio del consenziente.

La l. n. 219/2017Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” si struttura sostanzialmente in due parti: la prima sul “consenso informato” e la seconda sul testamento biologico chiamato “disposizioni anticipate di trattamento”.

Il Legislatore con la normativa “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, ha portato a compimento un processo legislativo iniziato da almeno 20 anni (disegno di legge Fortuna, 1984).

Il suicidio assistito è un tema su cui esistono, e sono fortemente radicate, opinioni diverse. Hanno spesso fonte religiosa, ma non solo.

Il diritto alla salute comporta una generale libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche che attribuisce al singolo il diritto ad una piena conoscenza dei trattamenti sanitari, al fine di poter scegliere consapevolmente quale cura adottare o se ricorrere o meno ad una cura (principio di libertà sancito dalla nostra Costituzione).

La Corte Costituzionale con sentenza n. 438/2008 ha stabilito che « il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile” e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.

Il consenso informato, quindi, è l'adesione, espressa (di norma) in forma scritta su apposito modulo, che il malato dà alle proposte diagnostico-terapeutiche formulate dal medico curante per la cura delle gravi patologie da cui è affetto.

Il legislatore è intervenuto in materia con la l. n. 219 del 22 dicembre 2017 che ha disciplinato le modalità di espressione e di revoca del consenso informato, la legittimazione ad esprimerlo e a riceverlo e ha regolamentato le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), con le quali il dichiarante esprime i propri orientamenti sul momento del « fine vita » nel caso in cui sopravvenga una perdita irreversibile della capacità di intendere e di volere.

La legge affronta anche i delicati temi della terapia del dolore, del divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e della dignità nella fase finale della vita, in quanto anche in caso di rifiuto del trattamento medico, vige il divieto di abbandono terapeutico del paziente, dovendo la medicina porre in essere forme di preparazione dignitosa del morire, tramite le cure palliative, la terapia del dolore e la sedazione palliativa continuativa profonda.

Viene poi disciplinato il diritto all'informazione, definito come il diritto di ogni persona di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.

Viene stabilito che il rifiuto o la rinuncia al trattamento sanitario non possono comportare l'abbandono terapeutico. Sono sempre assicurati il coinvolgimento del medico di famiglia e l'erogazione delle cure palliative (l. n. 38/2010, Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore).

Con tale legge si colloca, quindi, al centro dell'attenzione la persona ammalata, vengono così attuati taluni cruciali enunciati costituzionali, seppur in termini di opportuno bilanciamento, principi che sono quelli richiamati nell'articolo d'esordio della legge; in particolare, il diritto alla salute ed al rispetto della persona umana (art. 32 Cost.), quello al rispetto della libertà individuale che è “inviolabile” (art. 13 Cost.) e quello al rispetto della “personalità” individuale (art. 2 Cost.), che tutti gli altri principi vivifica ed informa.

La l. n. 219/2017 tende a specificare quali siano i termini del principio di autodeterminazione in materia sanitaria; un principio assai rilevante nella relazione di cura e fiducia medico-paziente, al punto che già la Corte di Cassazione aveva specificato che: “l'obbligo del consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento medico, al di fuori del quale l'intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell'interesse del paziente” (Cfr: Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748; Cass. III sez. civ. 5 luglio 2017, n. 16503).

La nota sentenza Englaro della Cassazione a Sezioni Unite n. 27145/2008 (Cassazione Sezioni Unite n. 27145/2008 - Sentenza Englaro), evidenzia proprio un equo bilanciamento con il valore della vita pervenendo alla conclusione che « all'individuo che, prima di cadere nello stato di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l'inaccettabilità per sé dell'idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente, l'ordinamento dà la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale ».

Con la necessaria precisazione che nel consentire al trattamento sulla persona dell'incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta ad un duplice ordine di vincoli, dovendo egli “innanzitutto, agire nell'esclusivo interesse dell'incapace, e nella ricerca del best interest, dovendo decidere non al posto dell'incapace né per l'incapace, ma con l'incapace, quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza” (Cfr: Cass. civ., 15 gennaio 1997 n. 364, in Giust. civ., 1997, I, 1586).

L'art. 1, comma 3, della legge 219/2017 ribadisce il principio, più volte affermato dalla Suprema Corte della necessità che il consenso al trattamento sia informato ed esaustivo. In particolare, si è precisato con tale sentenza che il paziente “ha diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informato in modo completo, aggiornato a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia i medesimi” (Cassazione Sezioni Unite n. 27145/2008 - Sentenza Englaro, cit.).

Appare condivisibile il discrimen tra diritto alla salute e diritto all'autodeterminazione, tracciato in maniera tale da dare prevalenza all'autonomia e all'esigenza di vivere secondo la propria personale concezione della dignità, anche quando le scelte compiute possano ripercuotersi sui beni della vita e dell'integrità fisica.

Sul discusso tema del “diritto di autodeterminazione terapeutica”, in assenza di una disciplina ad hoc, è intervenuta la giurisprudenza più recente che ha superato i propri precedenti orientamenti di segno contrario, affermando che il consenso informato ha come corollari la facoltà di scegliere tra diverse possibilità di trattamento medico ed anche rifiutare o far interrompere cure indesiderate, fermo restando il limite dei trattamenti dannosi o integranti eutanasia attiva (Cfr: Cass. civ. n. 21748/2007.).

L'informazione deve essere “completa” per permettere alla persona di esercitare pienamente la sua autodeterminazione e il primo comma della legge specifica che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata”, fatti salvi i casi di legge.

Il citato terzo comma dell'art. 1) della legge 219/2017 chiarisce l'ampiezza dell'informazione precisando che la persona ha diritto di “conoscere le proprie condizioni di salute ...” e la decisione finale comunque spetta alla persona sia in caso di rifiuto sia in caso di alternative prospettate.

La legge prevede la possibilità dell'informazione e della delega a persone di fiducia di ricevere informazioni e di “esprimere il consenso in sua vece”.

Il rifiuto all'informazione deve essere un rifiuto esplicito e deve essere annotato in cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico e, in generale, su tutta la “documentazione sanitaria” come da nuova definizione della l. n. 24/2017.

La normativa entra anche nella forma della documentazione. Infatti, il successivo comma 4 statuisce: “Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.

Non è stabilito l'obbligo della forma scritta per ogni tipo di consenso. Il consenso informato è inquadrabile nella categoria dei “negozi giuridici” per i quali vige il principio della libertà della forma, fatti salvi gli specifici casi in cui la forma scritta sia richiesta per legge.

Appare utile evidenziare i casi in cui tale adempimento è richiesto ad substantiam - ovvero richiesto a pena di nullità (es. trapianti) - dai casi in cui è richiesto ad probationem, ovvero al fine di provare l'avvenuta informazione.

Il quinto comma stabilisce il diritto della persona a rifiutare “qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario”. La norma ha valenza generale e si colloca ben oltre le tematiche tipiche del fine vita, recependo quanto la giurisprudenza aveva già stabilito sul caso Englaro sul riconoscimento di trattamento sanitario - rifiutabile - della nutrizione e dell'idratazione artificiale in quanto atti da porre “su prescrizione medica di nutrienti mediante dispositivi medici” (Cassazione Sezioni Unite n. 27145/2008 - Sentenza Englaro, cit.).

Il medico, stabilisce il sesto comma “è tenuto a rispettare le volontà espresse dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità penale”.

Proprio sul tema occorre segnalare l'intervento della Corte di Cassazione che l'11 novembre 2019 ha emesso la sentenza n. 28990 sul delicato tema del risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione (consenso informato) (Cfr: Cass. civ., n. 28985/2019.)

La Corte di Cassazione con sentenza n. 28985/2019 evidenzia che la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni:

a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all'intervento (onde non subirne le conseguenze invalidanti);

b) un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (e, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravita), diverso dalla lesione del diritto alla salute (Cfr.: ex multis, Cass. civ., n. 2854/2015; Cass. civ., n. 24220/2015; Cass. civ., n. 24074/2017; Cass. civ., n. 16503/2017; Cass. civ., n. 7248/2018).

Possono, pertanto, prospettarsi le seguenti situazioni conseguenti ad una omesso od insufficiente informazione:

1) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi, nelle medesime condizioni “hic et nunc”;

2) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi;

3) omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute (inteso anche nel senso di un aggravamento delle condizioni preesistenti) a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi;

4) omessa informazione in relazione ad un intervento che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, cui egli avrebbe comunque scelto di sottoporsi;

5) omissione/inadeguatezza diagnostica che non abbia cagionato danno alla salute del paziente, ma che gli ha tuttavia impedito di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti (Caso del tri-test eseguito su di una partoriente, senza alcuna indicazione circa la sua scarsa attendibilità e senza alcuna, ulteriore indicazione circa l'esistenza di test assai più attendibili, quali l'amniocentesi, la villocentesi, la translucenza nucale).

 

La legge n. 219/2017 riconosce, inoltre, il diritto alla sospensione delle cure attraverso un testamento biologico. Si riconosce il diritto a decidere per sé nel caso in cui a un certo punto si sia impossibilitati a farlo. Sottoscrivere un testamento biologico per le dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) significa decidere, in un momento in cui si è ancora capaci di intendere e volere, quali trattamenti sanitari si intenderanno accettare o rifiutare nel momento in cui subentrerà un'incapacità mentale.

La discussione sulla natura della nutrizione e dell'idratazione artificiale è stata posta sul delicato tema della “rifiutabilità” del trattamento sanitario, ove il fronte “laico” la considerava (e la considera) avente natura sanitaria in quanto “posta in seguito a una valutazione dello stato energetico del paziente e monitorata da medici e operatori sanitari professionali” (Commissione ministeriale c.d. “Veronesi-Oleari”.), mentre il fronte “cattolico” che sulla base di un parere del Comitato nazionale di bioetica li considerava (e li considera) “acqua e cibo” non rifiutabili in quanto da considerarsi “sostentamento ordinario di base” finalizzate a garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere” (CNB, parere del 30 settembre 2005.).

Sia il mondo scientifico (Vedasi il parere della Società italiana di nutrizione parenterale-SINPE Precisazioni in merito alle implicazioni bioetiche della nutrizione artificiale, gennaio 2007.), sia la Corte di Cassazione sul caso Englaro (Cass. civ., sez. un., n. 27145/2008 c.d. Englaro, cit.), avevano già chiarito la natura terapeutica delle pratiche: “Non vi è dubbio che l'idratazione e l'alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici e consiste nella somministrazione di preparati come composti chimici implicanti procedure tecnologiche” (Cass. civ., I sez. civ., n. 21748/2007 cit.).

Alimentazione e idratazione artificiale sono atti sanitari e, quindi, sottoposti alla volontà del paziente con la possibilità del suo rifiuto e non possono essere imposti, come avvenuto nel caso della morte del cardinale Carlo Maria Martini che ha rifiutato i farmaci, a cui eravamo idealmente legati dai tempi di Milano della “Cattedra dei non credenti”.

Per “accanimento terapeutico” possiamo intendere “tutto ciò che non è voluto dal paziente” (M. Mori, in Il caso Eluana Englaro, 2008.), mentre per “sedazione palliativa profonda” si intende la “somministrazione intenzionale di farmaci ipnotici, alla dose necessaria richiesta, per ridurre il livello di coscienza fino a annullarla” al precipuo scopo di alleviare o abolire la percezione di un sintomo refrattario, fisico e/o psichico, altrimenti intollerabile. Il Comitato nazionale di bioetica lo circoscrive alle condizioni di malattia terminale inguaribile nell'imminenza della morte” (Vedasi il parere del Comitato nazionale di bioetica del 29 gennaio 2016.).

Le disposizioni anticipate di trattamento (DAT) come atto formale richiedono la necessaria forma scritta (o misure come la videoregistrazione da considerarsi equivalenti) e devono essere redatte per atto pubblico o scrittura privata autenticata, o anche la mera scrittura privata presso il Comune di residenza laddove questo abbia istituto l'apposito registro.

Le disposizioni anticipate di trattamento, tra l'altro, sono vincolanti sia nei confronti della struttura che del professionista.

Non si tratta di una legge complessiva sul “fine vita”, poiché non si interviene su azioni volontarie dirette a porre fine alla vita che continuano ad essere regolate dal codice penale (suicidio assistito ed eutanasia).

Eutanasia e suicidio assistito

Occorre, a questo punto, porre l'attenzione sul discusso e controverso discorso dell'eutanasia, ovvero dell'atto con cui un medico o un'altra persona somministrano farmaci su libera richiesta del paziente consapevole e informato, con lo scopo di provocarne intenzionalmente la morte immediata.

L'obiettivo dell'eutanasia è quello di anticipare la fine della vita per togliere sofferenza.

In Italia è un atto vietato. I Paesi in cui questa pratica ha legittimazione giuridica (Olanda, Belgio, Lussemburgo, Svizzera) prevedono condizioni di gravi patologie inguaribili e di sofferenza fisica o psichica percepita come insopportabile, espressa ripetutamente. I cittadini italiani si rivolgono principalmente alla Svizzera grazie alla facilità di comunicazione linguistica.

Il suicidio assistito, invece, si distingue dall'eutanasia perché in questo caso è l'interessato a compiere l'ultimo atto per causare la propria morte, atto reso possibile grazie alla collaborazione di un terzo, anche un medico, che prescrive e porge il prodotto letale nel rispetto delle rigide condizioni previste dal legislatore.

La procedura può avvalersi di macchine per aiutare il paziente con ridotta capacità fisica ad assumere la pozione letale. La maggioranza delle volte l'aiuto al suicidio si realizza con l'assistenza di medico, farmacista, infermiere all'interno di strutture di cura (aiuto medicalizzato).

All'origine ci deve sempre essere la volontà della persona a suicidarsi senza che vengano esercitate pressioni sulla sua autonomia (istigazione), che il malato abbia sofferenze insopportabili e non esistano prospettive di miglioramento.

Ricordando i casi più famosi in Italia che hanno colpito ed appassionato l'opinione pubblica, avrebbe potuto avvalersene Piergiorgio Welby, che era cosciente, ma non la Englaro, in stato vegetativo, quindi, incapace di esprimere le sue volontà.

L'eutanasia è vietata nel nostro Ordinamento. Difatti, l'art. 580 c.p. prevede fino a 12 anni di carcere per chi assiste e istiga al suicidio (art. 580 c.p. Istigazione o aiuto al suicidio. Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell'articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d'intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all'omicidio).

Su tale delicato tema occorre necessariamente ricordare la controversa e dolorosa questione di Fabiano Antoniani, conosciuto come il dj Fabo, gravemente disabile e cieco, che il radicale Marco Cappato nel febbraio 2017 (finito sotto processo, ma poi assolto, per aver assecondato la sua ferma richiesta di togliersi la vita con l'assunzione di un farmaco letale) ha accompagnato in una clinica Svizzera, azionando uno stantuffo attraverso il quale si è iniettato nelle vene il veleno letale.

In seguito al rientro in Italia, Cappato si autodenunciava per il reato di cui all'art. 580 c. p., ovvero aiuto al suicidio. La Procura di Milano, inizialmente, chiedeva l'archiviazione dell'attivista radicale, ma il giudice delle indagini preliminari disponeva l'imputazione coatta di Cappato per il reato di cui al suddetto articolo.

Cappato, infatti, è stato accusato di aver rafforzato il proposito suicidario di dj Fabo e di averne agevolato l'esecuzione, reati previsti dall'art. 580 c.p.

A seguito di ciò, il 14 febbraio del 2018 la Corte d'Assise di Milano ha posto alla Corte Costituzionale la questione di legittimità sull'articolo che punisce l'assistenza al suicidio.

L'ordinanza della Consulta arrivava il 24 ottobre 2018: «L'attuale assetto normativo sul fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti».

La Corte Costituzionale chiedeva, quindi, al Parlamento di intervenire con una disciplina specifica entro un anno.

La politica ed in Parlamento italiano si facevano, come spesso accade, trovare impreparati: la materia discussa dalla Commissione Affari Sociali della Camera non sfociava in alcun accordo, a causa delle note contrapposizioni tra Lega e M5S.

A lume di tanto, l'Ufficio Stampa della Corte Costituzionale in data 25 settembre 2019 (Comunicato stampa del 25.09.2019 riguardante la sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale) emetteva il seguente comunicato stampa: “In attesa del Parlamento la Consulta si pronuncia sul fine vita. La Corte costituzionale si è riunita in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte d'assise di Milano sull'art. 580 del Codice penale riguardanti la punibilità dell'aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita. In attesa del deposito della sentenza, l'Ufficio stampa fa sapere che la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell'art. 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.

In attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte Costituzionale con sentenza n. 242/2019 ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (artt. 1 e 2 della l. n. 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente.

La Consulta sottolinea che l'individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell'ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell'ordinanza 207 del 2018.

La Corte d'Assise di Milano, con sentenza del 27 luglio 2020, ha assolto Marco Cappato con la formula «perché il fatto non sussiste». Nel chiedere l'assoluzione, l'accusa aveva ricordato la sentenza della Corte costituzionale, spiegando che nella vicenda ricorrono tutti e 4 i requisiti indicati dalla Consulta, che ha tracciato la via sulla non punibilità dell'aiuto al suicidio.

Precisamente, la Corte aveva indicato che le quattro condizioni necessarie per la «non punibilità» sono quelle del caso concreto - quello di dj Fabo - precisamente: l'aiuto fornito a una persona «affetta da patologia irreversibile», alla quale la malattia provoca «sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili», «tenuta in vita da sostegni artificiali» e però in grado di compere scelte «libere e consapevoli».

La Corte d'assise di Milano ha, quindi, sulla scorta degli elementi e gli strumenti - forniti dalla Consulta - assolto sulla scorta anche del principio importante ove “Il diritto di rinunciare a vivere ancor prima di affrontare la brutale agonia che la sua gravissima malattia gli avrebbe imposto”.

Successivamente, Marco Cappato è stato assolto dall'accusa di istigazione e assistenza al suicido anche dalla Corte di Appello di Genova confermando la sentenza della Corte di assise di Massa del 27 luglio 2020.

Grazie alle disobbedienze civili di Marco Cappato e Mina Welby, a seguito della l. n. 219/2017 che riconosce il valore del Testamento Biologico, e della sentenza della Corte Costituzionale che ha aperto dei varchi sulla disponibilità della vita umana, allo stato, in Italia possono porre fine alle loro sofferenze solo i pazienti per cui risulti sufficiente l'interruzione delle terapie, come previsto dalla l. n. 219/2017.

La Corte costituzionale ha chiarito che l'aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) non è punibile nel caso in cui la persona che lo richiede sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.

Tutte le altre persone con patologie irreversibili che procurano dolori intollerabili, e i pazienti impossibilitati ad assumere autonomamente un farmaco (a causa di SLA, di una tetraplegia...) in Italia non hanno la possibilità di scegliere, e di chiedere aiuto medico attivo per la morte volontaria, perché il codice penale vieta l'omicidio del consenziente (art. 579 c.p.).

Il quesito referendario che si poneva l'obiettivo di introdurre l'eutanasia legale

La proposta referendaria in Italia nasceva dal “Comitato Promotore” composto dall'Associazione Luca Coscioni e da tanti altri movimenti, partiti ed associazioni, sulla considerazione comunemente condivisa che molte persone gravemente malate non sono libere di scegliere fino a che punto vivere la loro condizione.

Non hanno diritto all'aiuto medico alla morte volontaria, al suicidio assistito o ad accedere all'eutanasia come è invece possibile in Svizzera, Belgio, Olanda, Spagna, Canada e molti Stati degli Stati Uniti d'America.

Nonostante una proposta di legge di iniziativa popolare depositata nel 2013 e due richiami della Corte costituzionale, il Parlamento in tutti questi anni non è mai riuscito a discutere di eutanasia legale. Ecco perché si è arrivati all'idea di dare la parola ai cittadini con un referendum.

Il quesito referendario si poneva l'obiettivo di introdurre l'eutanasia legale tramite l'abrogazione parziale dell'art. 579 c.p. che punisce l'omicidio del consenziente*. Tecnicamente il quesito lasciava intatte le tutele per le persone vulnerabili, i minori di 18 anni, le persone che non sono in grado di intendere e volere, quelle il cui consenso è stato estorto, e potrà introdurre nel nostro Paese il diritto all'aiuto medico alla morte volontaria.

Il referendum voleva abrogare parzialmente la norma penale che impedisce l'introduzione dell'eutanasia legale in Italia.

Con l'intervento referendario (Quesito referendario: “Volete voi che sia abrogato l'art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1 limitatamente alle seguenti parole «la reclusione da sei a quindici anni»; comma 2 integralmente; comma 3 limitatamente alle seguenti parole «Si applicano?”.), l'eutanasia attiva sarà consentita, affermava il Comitato promotore, nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e il testamento biologico, e in presenza dei requisiti introdotti dalla Sentenza della Consulta sul “Caso Cappato”, ma rimarrà punita se il fatto è commesso contro una persona incapace o contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o contro un minore di diciotto anni. Per quanto riguarda condotte realizzate al di fuori delle forme previste dall'ordinamento sarà applicabile il reato di omicidio doloso (Art. 575 c.p.Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”.).

L'eutanasia attiva è vietata dal nostro ordinamento sia nella versione diretta, in cui è il medico a somministrare il farmaco eutanasico alla persona che ne faccia richiesta, sia nella versione indiretta, in cui il soggetto agente prepara il farmaco eutanasico che viene assunto in modo autonomo dalla persona (Art. 580 c.p. Istigazione e aiuto al suicidio. “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima”.).

Forme di eutanasia c.d. passiva, ovvero praticata in forma omissiva, cioè astenendosi dall'intervenire per tenere in vita il paziente in preda alle sofferenze, sono già considerate penalmente lecite soprattutto quando l'interruzione delle cure ha come scopo di evitare il c.d. “accanimento terapeutico”.

Il Comitato Promotore prospettava di intervenire con il referendum parzialmente abrogativo dell'art. 579 c.p. (Questo per una duplice ragione: intervenendo su questo si può esplicitamente richiamare il concetto di eutanasia afferma il Comitato promotore; secondo poi la Corte, essendo intervenuta nella sentenza Cappato sull'art. 580 c.p., può fare ricadere la disposizione come abrogata in una cornice normativa già delineata dalle sue pronunce in materia. La norma che residua, infatti, ha al suo interno l'espressione “col consenso di lui” il cui significato risulta coordinato alle leggi dell'ordinamento e agli interventi della Corte.). Sotto tale delicato profilo si riportava si riportava  il pensiero di Tullio Padovani (T. Padovani, Avvocato penalista, già professore ordinario di Diritto penale alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, accademico dei Lincei e direttore di riviste scientifiche penalistiche): “... È allora evidente che, in termini pratici, il principio della disponibilità del diritto alla vita, per trovare compiuta e pratica attuazione, dovrebbe essere regolato dalla legge (circa i modi di espressione del consenso, l'accertamento preventivo della validità, i soggetti legittimati ad attuarne l'esecuzione, e così via dicendo). Ma rivoluzionario e ‘incombente' resterebbe l'affermazione - finalmente raggiunta sul piano normativo - che il diritto alla vita è un diritto disponibile; così come necessariamente dev'essere se sotto l'etichetta proclamata di «diritto» non si vuole celare il suo contrario (e cioè l'obbligo di vivere) o la sua caricatura (l'interesse ‘legittimo' a morire) … ”.

Da ultimo, veniva riportato il pensiero di Vladimiro Zagrebelscky (V. Zagrebelsky. Magistrato a riposo; già giudice della Corte europea dei diritti dell'Uomo; direttore del Laboratorio dei Diritti fondamentali di Torino.): “... Ma nel frattempo è intervenuta una limpida sentenza della Corte costituzionale tedesca, che ha considerato centrale il tema riguardante la “qualità” della decisione di morire, la cui maturità, consapevolezza e libertà sono non solo necessarie, ma anche alla fine sufficienti. Poiché lo Stato è tenuto a mettere in opera ogni mezzo per escludere vizi di quella drammatica decisione, offrendo anche alternative utili come trattamenti palliativi o altri interventi, ma non spetta allo Stato sostituirsi alla persona nel valutarne le ragioni e ancor meno nel decidere in quali situazioni rispettare la volontà della persona e in quali no. La sentenza della Corte tedesca non può essere ignorata in Italia: il tema dei diritti fondamentali delle persone è universale e la circolazione degli argomenti è tanto più importante nell'area d' Europa. I quesiti che con il referendum si pongono al voto popolare tendono al superamento della attuale incostituzionale limitazione della autonomia delle persone. Nella paralisi del Parlamento, l'intervento diretto del popolo è la soluzione considerata dalla Costituzione ”.

* In evidenza

Art. 579 c.p. e relative abrogazioni referendarie. “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell'art. 61. Si applicano le disposizioni relative all'omicidio se il fatto è commesso:

1) contro una persona minore degli anni diciotto;

2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;

3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”.

La sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2022 sulla inammissibilità del referendum sull'omicidio del consenziente

La sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2022, che ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum per l'abrogazione parziale dell'articolo 579 del codice penale, concernente l'omicidio del consenziente, si fonda essenzialmente su una delle ragioni di inammissibilità individuate nella sentenza n. 16 del 1978 e successiva giurisprudenza; in particolare l'ipotesi in cui il referendum abbia ad oggetto disposizioni legislative ordinarie costituzionalmente necessarie.

La Corte sottolinea che “è necessario innanzitutto individuare la portata del quesito”. A tal fine il giudice costituzionale precisa che l'obiettivo della richiesta referendaria va desunto esclusivamente “dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all'incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento”, nonché ricorda che il giudizio di ammissibilità ha “caratteristiche specifiche ed autonome” rispetto ai giudizi di legittimità delle leggi e degli atti aventi forza di legge (Sentenza Corte costituzionale n. 50 del 2022).

La Consulta raffronta la vigente stesura dell'articolo 579 del codice penale con quella risultante dall'abrogazione parziale perseguita con il referendum per concludere che l'eventuale vittoria del sì implicherebbe la liceità dell'omicidio del consenziente, indipendentemente dal fatto che la persona sia affetta da malattie gravi e irreversibili, e dalle sue motivazioni. Risulterebbero inoltre “irrilevanti … la qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte (potendo l'agente servirsi non solo di farmaci che garantiscano una morte indolore, ma anche di armi o mezzi violenti di altro genere)” (Sentenza Corte costituzionale n. 50 del 2022, cit.).

La Corte si sofferma sulla tesi sostenuta dai promotori del referendum, secondo cui la normativa di risulta andrebbe reinterpretata ed integrata alla luce della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Legge 22.12.2017, n.219, Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento.) e della sentenza della Corte stessa n. 242 del 2019 sul suicidio medicalmente assistito. Al riguardo il Collegio evidenzia che “sono irrilevanti in sede di giudizio di ammissibilità del referendum «i propositi e gli intenti dei promotori circa la futura disciplina legislativa che potrebbe o dovrebbe eventualmente sostituire quella abrogata; né ad una richiesta referendaria abrogativa, quale è quella prevista dall'art. 75 della Costituzione, è possibile di per sé attribuire un significato ricostruttivo di una nuova e diversa disciplina …» (sentenza n. 17 del 1997)” ( Sentenza Corte costituzionale n. 50 del 2022, cit.).

Di qui l'impossibilità di condividere la tesi dei promotori poiché ci si trova in presenza di un quesito referendario che incide su normativa costituzionalmente necessaria, in quanto attinente, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, a “valori di ordine costituzionale … da tutelare escludendo i relativi referendum”.

La stessa posizione è stata ribadita per la tematica delle scelte di fine vita - aggiunge la Corte - nell'ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019 sul suicidio medicalmente assistito.

Alla luce del mutato quadro istituzionale rispetto a quello del 1930, in cui l'articolo 579 del codice penale fu concepito, l'incriminazione dell'omicidio del consenziente assolve “allo scopo, di perdurante attualità, di proteggere il diritto alla vita, soprattutto … delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate” (Sentenza Corte costituzionale n. 50 del 2022, cit.).

Ove è in giuoco il bene della vita umana a confronto con la libertà di autodeterminazione, è “costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una … tutela minima” del bene della vita umana.

E, quindi, la conclusione che “discipline come quella considerata possono essere modificate o sostituite dallo stesso legislatore, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate” (Sentenza Corte costituzionale n. 50 del 2022, cit.).

Né giova obiettare, come fanno i promotori del referendum, che l'abrogazione non totale, ma solo parziale dell'articolo 579 del codice penale salvaguarderebbe i soggetti vulnerabili, poiché le ipotesi di perdurante punibilità non coprono - ribatte la Corte - tutti i profili alla cui luce è costituzionalmente necessario tutelare il bene della vita.

Di qui la pronuncia di inammissibilità del quesito referendario.

Sulla nozione di “trattamento di sostegno vitale” - Nodo principale del percorso argomentativo della sentenza della Corte Costituzionale n. 135 del 2024

Con la sentenza n. 135/2024 la Corte costituzionale rigetta la questione di legittimità sollevata dal GIP di Firenze sull'art. 580 c.p., come modificato dalla sentenza n. 242/2019 della stessa Corte, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l'altrui suicidio alla condizione che l'aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», chiarendo contestualmente cosa debba intendersi per trattamenti di sostegno vitale.

La pronuncia origina dalle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP del Tribunale di Firenze sull'art. 580 c.p., come modificato dalla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l'altrui suicidio alla condizione che l'aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», in quanto in contrasto con gli artt. 2,3,13,32 e 117 Cost. (Ordinanza Trib. Firenze 17.01.2024.).

Il caso di specie riguarda un soggetto, M. C., affetto da sclerosi multipla e definitivamente impossibilitato a muoversi dal letto, con pressoché totale immobilizzazione anche degli arti superiori, salva una residua capacità di utilizzazione del braccio destro.  

M. C., dopo aver maturato la ferma determinazione di accedere alla procedura di suicidio assistito, si metteva in contatto con un'associazione e, con l'aiuto del suo fondatore e di altri due soggetti, si recava in Svizzera per sottoporsi a tale procedura. 

A parere del giudice remittente, tuttavia, le condotte di queste tre persone che hanno aiutato M. C. (Atti di costituzione M. C., C. L. e F. M., atti di intervento L. S. e M. O. e Presidente del Consiglio dei Ministri.) a recarsi nel territorio elvetico rientrerebbero senz'altro nella sfera applicativa dell'art. 580 c.p. in quanto difetterebbe in M. C. il requisito della «dipendenza da trattamenti di sostegno vitale», requisito necessario per l'applicazione dell'ipotesi di non punibilità introdotta dalla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale.

M. C., infatti, non si avvaleva di alcun supporto meccanico, ma neppure era sottoposto a terapie farmacologiche salvavita, né richiedeva interventi assistenziali.

Ritenute dunque sussumibili le condotte di agevolazione del caso di specie nella fattispecie di cui all'art. 580 c.p., il giudice a quo con la medesima ordinanza sollevava contestualmente dubbi di legittimità costituzionale del requisito in parola con riferimento specificatamente all'art. 3 Cost. (in quanto si viene a determinare un'irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche), agli artt. 2, 13 e 32 co. 2 (in quanto il requisito provocherebbe una compressione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie), nonché all'art. 117 Cost. in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU (implicando un'interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare non funzionale alla tutela del diritto alla vita). 

La Corte innanzitutto esamina la censura formulata rispetto all'art. 3 Cost., ritenendola infondata, chiarendo che non esiste un diritto generale a terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile. Tuttavia, è stato ritenuto irragionevole impedire l'accesso al suicidio assistito per pazienti che, pur soffrendo in modo intollerabile e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali, hanno già il diritto, riconosciuto dalla legge n. 219 del 2017 e dall'art. 32 co. 2 Cost. di rifiutare i trattamenti necessari alla loro sopravvivenza.

La seconda censura, anch'essa ritenuta infondata, discute il mancato riconoscimento del diritto al suicidio assistito per i pazienti non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, ritenendo che ciò violi il diritto all'autodeterminazione (artt. 2,13 e 32 co. 2 Cost.). 

La Corte riconosce il diritto fondamentale del paziente a rifiutare trattamenti medici, inclusi quelli necessari alla sopravvivenza, ma distingue questo diritto dalla nozione più ampia di «autodeterminazione terapeutica», che implica il diritto a disporre della propria vita con l'assistenza di terzi, come riconosciuto da alcune corti costituzionali europee e internazionali. Tuttavia, la Corte ritiene che la legalizzazione del suicidio assistito crei rischi di abusi e pressioni sociali su malati e anziani, sottolineando che spetta al legislatore bilanciare il diritto all'autodeterminazione con la tutela della vita umana, non essendo questo un compito della Corte.

La terza censura sostiene che vietare l'assistenza ai pazienti che chiedono di morire sebbene in presenza di tutte le condizioni indicate nella sentenza n. 242 del 2019, sia contrario al principio di tutela della dignità umana. Questo obbligherebbe il paziente ad un processo di morte lento, in modo non conforme alla sua concezione di dignità.

Infine, il giudice a quo sostiene che la normativa che vieta l'assistenza al suicidio per pazienti non dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, ma affetti da patologie irreversibili e capaci di decidere, violi il diritto alla vita privata (art. 8 CEDU) e crei una discriminazione (art. 14 CEDU).

La Corte richiama alcune pronunce della Corte EDU con cui si è arrivati a riconoscere il diritto di decidere quando e come porre fine alla propria vita come parte del diritto al rispetto della vita privata (Cfr.: Corte EDU, Haas v. Svizzera 20.01.2011.), nonché si allinea alla lettura dell'art. 8 CEDU della Corte di Strasburgo, non ritenendo irragionevole limitare l'assistenza al suicidio ai pazienti che possono già rifiutare trattamenti di sostegno vitale.

La Corte chiarisce la portata del requisito della “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale” richiesto per la procedura di assistenza al suicidio

- In particolare, si afferma: «il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero apprese da familiari o “caregivers” che si facciano carico dell'assistenza del paziente

- Ed ancora: «Nella misura in cui tali procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l'udienza pubblica, l'evacuazione manuale dell'intestino del paziente, l'inserimento di cateteri urinari o l'aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l'espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell'applicazione dei principi statuiti dalla sentenza n. 242 del 2019» (Sentenza Corte Costituzionale n. 135 del 2024.).

Last but not least, la Corte ricorda come l'accertamento della dipendenza da questi trattamenti deve essere fatto insieme alla verifica degli altri requisiti stabiliti dalla sentenza n. 242 del 2019, ribadendo che il legislatore e il servizio sanitario nazionale intervengano ad assicurare concreta e puntuale attuazione attraverso una disciplina specifica.

Il lungo e prolungato dibattito sul “fine vita” tra laici e cattolici, l’ingiustificabile immobilismo del Parlamento italiano su un tema eticamente sensibile ed il rischio di venti leggi regionali a partire dalla Regione Toscana ed Emilia-Romagna

Quando si parla di possibilità di scelta alla fine della vita, non è raro fare confusione tra i termini e usare come sinonimi “eutanasia” e “suicidio assistito”. Non sono però la stessa cosa.

Come evidenziato, nel caso dell’eutanasia, attualmente illegale in Italia, dopo la verifica dei requisiti del paziente che ne fa richiesta e il via libera da parte di una commissione medica multidisciplinare, è un medico o un operatore sanitario a somministrare direttamente al paziente il farmaco letale che porrà fine alla sua vita.

Quando parliamo di eutanasia, siamo di fronte ad un’azione diretta di un sanitario sul corpo della persona che ne ha fatto richiesta. L’eutanasia non può mai essere effettuata su persone non consapevoli o incoscienti, anche nel caso in cui la persona abbia dichiarato di voler accedere all’eutanasia prima di ritrovarsi in una condizione di incapacità di intendere e volere.
Troppo spesso nell’immaginario comune i trattamenti eutanasici e di sedazione profonda palliativa continua vengono confusi.

L’espressione “suicidio assistito” è essenzialmente un termine giornalistico. La pratica a cui fa riferimento è quella della “morte volontaria medicalmente assistita” (MVMA). Tale pratica in Italia è stata depenalizzata dalla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale ed oggi l’accesso a questa pratica è un diritto accessibile nel rispetto dei requisiti richiesti.

A differenza dell’eutanasia, i trattamenti di “suicidio assistito” o meglio di “morte volontaria medicalmente assistita”, prevedono che sia il paziente stesso ad autosomministrarsi il farmaco letale. Il medico non interviene, quindi, con una somministrazione diretta, ma si limita a prescrivere il farmaco e a garantire l’assistenza al paziente durante l’auto-somministrazione. Anche in questo caso, prima di procedere alla MVMA, il paziente deve farne richiesta, le sue condizioni di salute devono essere verificate da una commissione medica multidisciplinare e deve essere capace di intendere e volere fino all’ultimo secondo.

Sia che si tratti di eutanasia che di suicidio assistito, è sempre il paziente a dover formulare la richiesta di fine vita. Nessun altro può farlo al suo posto, nemmeno i medici che lo hanno in cura o i familiari. Va da sé che nel formulare questo tipo di richiesta il paziente debba sempre essere completamente capace di intendere e volere, quindi non può dichiarare in anticipo la propria volontà di accesso all’eutanasia o al suicidio assistito.

La capacità di intendere e volere deve esserci fino all’ultimo momento, quindi fino al momento della somministrazione o auto-somministrazione del farmaco letale.

Pertanto, ritornando al ragionamento della Consulta (Contenuto nella sentenza n. 50 del 2022 che ha dichiarato inammissibile il referendum sull’omicidio del consenziente.) che ha ritenuto il testo referendario non sufficiente a garantire il carattere irrinunciabile del bene vita e il diritto all’autodeterminazione del consenziente urge di un bilanciamento costituzionale che assicuri una tutela minima del bene vita e subordini la depenalizzazione della condotta a un riferimento limitativo.

Su tale lungo e prolungato dibattito, si è arrivati alla legge della Regione Toscana n. 16/2025 sul “fine vita” che è la prima in Italia a regolare il suicidio medicalmente assistito, fissando come funziona la procedura di richiesta del farmaco e i tempi di valutazione e somministrazione.

La legge della Regione Toscana sul “fine vita” nella parte dei requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito, si rifà proprio alla sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale che ha dichiarato non punibile chi agevola l’esecuzione del suicidio assistito di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da malattia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, ma in grado di intendere e di volere*.

La legge regionale Toscana, inoltre, fissa la procedura e i tempi: il malato potrà presentare domanda semplificata al Direttore della Asl per richiedere l’accesso al suicidio assistito e, in caso di esito favorevole, la procedura dovrà concludersi in poco più di un mese, 37 giorni per l’esattezza, che possono diventare eccezionalmente 42 se vengono richiesti ulteriori accertamenti medici. 

Non si tratta di eutanasia ma di suicidio assistito, ove è lo stesso soggetto ad assumere il farmaco letale o a premere il pulsante per l’iniezione.

La legge della Regione Toscana n. 16/2025 può sicuramente essere definita "coraggiosa" perché segna un passo in avanti "storico" nella garanzia del diritto all'autodeterminazione sul “fine vita”, occupandosi espressamente, per la prima volta in Italia, delle modalità organizzative delle procedure di suicidio medicalmente assistito, ma rappresenta anche un "segnale" chiaro della opportunità di un intervento del legislatore statale che rechi una disciplina in grado di garantire un accesso uniforme alle prestazioni.

La Regione Emilia-Romagna, invece, dopo un lungo percorso, ivi compresa la presente audizione, ha confermato la propria scelta, ribadendo il ruolo del Comitato Regionale per l’etica nella clinica (COREC). Già da febbraio 2022 la Regione aveva indicato che l’organismo collegiale terzo richiesto dall’Alta Corte per la consultazione, e di riferimento per problemi di natura etica a salvaguardia di soggetti vulnerabili nel suicidio medicalmente assistito, dovesse essere un comitato specifico per l’etica nella clinica unico su tutto il territorio regionale, e non i CET (Comitati etici territoriali).

La Giunta regionale dell’Emilia-Romagna ha ribadito che le strutture del servizio sanitario pubblico regionale debbano applicare la sentenza numero 242 del 2019 della Corte costituzionale sul fine vita, per garantire al malato che ne faccia richiesta il diritto di ricorrere al suicidio medicalmente assistito nel rigoroso rispetto dei ristretti casi indicati dall’Alta Corte.

Tassativi i criteri indicati dalla Consulta (Cfr: sentenza n. 242/2019 e sentenza n. 50/ 2022 entrambe della Corte Costituzionale.) per evitare ogni arbitrio: il paziente deve essere affetto da una patologia irreversibile, da cui derivino sofferenze fisiche o psicologiche che il paziente ritiene intollerabili, che sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

La Regione Emilia-Romagna ha statuito in subiecta materia con delibere di Giunta Regionale nn. 194 e 333 del 2024 e le suddette delibere che disciplinano il suicidio assistito erano state sospese dal Tar Emilia-Romagna, che aveva accolto l’istanza di sospensiva secondo cui «una delibera regionale non può sostituire una legge nazionale su un tema così delicato», fissando al 15 maggio 2025 la trattazione collegiale.

Nelle more dell’udienza dinanzi al Tar Emilia-Romagna, il paziente che aveva avanzato la richiesta per il “suicidio assistito” è deceduto naturalmente e l’udienza è stata rinviata “in via ordinaria” per mancanza di “esigenze cautelari; quindi, siamo di fronte a una “cessata materia del contendere” e non vi è più urgenza di decidere se le DGR nn. 194 e 333 del 2024 della Regione Emilia-Romagna possono essere applicate o meno.

* In evidenza

In particolare, le condizioni fissate dalla Consulta sono:

1) persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale;

2) soggetto affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili;

3) paziente pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli;

4) soggetto capace di esprimere un proposito sul suicidio assistito, formatosi in modo libero e autonomo, chiaro e univoco.

In conclusione

Last but not least, ho richiamato, nell'intervento in audizione, le due grandi rivoluzioni realizzatesi con il Codice di Norimberga: quella del consenso informato e quella della dignità, che mettono entrambe la persona al centro, ove il principio del consenso informato è diventato progressivamente, non senza resistenze, un principio dal quale oggi non si può prescindere in nessun modo e in nessun luogo.

Dal dramma della Shoah scaturisce l'articolo 32 della nostra Costituzione, che riguarda il diritto fondamentale alla salute e si conclude con alcune parole capaci di spezzare una tradizione costituzionale centenaria: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Anche qui troviamo una discontinuità forte, una vera e propria rivoluzione, perché fino a quel momento le leggi avevano svolto un ruolo praticamente senza limiti.

I nostri legislatori hanno posto un limite istituzionale e formale, oltre il quale il Parlamento italiano non può spingersi. All'Assemblea Costituente, Aldo Moro propose l'istituzione di questo principio, ma trovò resistenze trasversali, perché sembrava inaccettabile che il Parlamento si autolimitasse. Invece, il Parlamento si deve fermare quando c'è in questione il rispetto della persona umana: esiste qualcosa di indecidibile dal potere politico, poiché la legge e lo strumento attraverso cui tale potere interviene sui diritti e sulla vita delle persone (In tal senso: Stefano Rodotà, in “Alle origini della Costituzione” 1998.).

Da una parte c'è la limitazione del potere medico: non basta più il giuramento di Ippocrate. Il medico non può fare nulla senza il consenso della persona, quindi, deve accettare il punto di vista dell'interessato, che può rifiutare le cure anche se questa decisione lo porterà alla morte.

Dall'altra c'è il potere politico: l'Assemblea costituente rinnova per così dire la promessa del re inglese, che con la Magna Charta diceva ai vescovi, agli abati e ai nobili «non metteremo le mani su di te»; il sovrano democratico dice la stessa cosa ai cittadini, in quanto la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Chi vi parla”, continua a pensare, nonostante le scelte coraggiose e d'avanguardia delle Regioni Toscana ed Emilia-Romagna, che l'immobilismo del Parlamento italiano su un tema così eticamente sensibile quale il “fine vita”, nonostante le sollecitazioni da più decenni ad intervenire, ove si assiste inerti alle dolorose migrazioni in Svizzera, appare davvero non più giustificabile.

Sul punto condivido e mi piace ricordare la lezione di Cesare Mirabelli (Cesare Mirabelli, già Presidente della Corte Costituzionale. “Sulla legge della Regione Toscana n. 16/2025”.), nel rapporto delle competenze Stato / Regioni, allorquando afferma “Sul fine vita le Regioni non hanno competenza. La premessa è che l'assistenza al suicidio come non punibile penalmente, in alcuni casi molto ristretti e a condizioni che la Corte costituzionale ha determinato, ha degli aspetti che riguardano le garanzie che le procedure devono rispettare. Questa non è una competenza regionale, ma statale, perché si tratta di disciplinare effetti relativi ai diritti fondamentali della persona - e non l'organizzazione sanitaria - una disciplina che necessariamente deve essere unitaria nel Paese” (Cesare Mirabelli, “Sulla legge della Regione Toscana n. 16/2025”, cit.).

Si evidenzia, infine, che “non è costituzionalmente illegittimo subordinare la non punibilità dell'aiuto al suicidio al requisito che il paziente necessiti, secondo la valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale” (Corte costituzionale, 20 maggio 2025, sentenza n. 66. Presidente Amoroso, Redattori Viganò – Antonini.). È quanto ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 66 del 20.05.2025 che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 580 del codice penale, sollevate dal Gip di Milano, al quale il pm aveva chiesto di archiviare due procedimenti per aiuto al suicidio.

Il verdetto ricalca quello emesso nella sentenza n. 135 del 2024, pubblicata successivamente all'istanza di rimessione. La Consulta rinnova, inoltre, il suo appello al legislatore affinché sia fatta una legge sul fine vita, e rileva che nel nostro Paese, non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; vi sono spesso lunghe liste di attesa; si sconta inoltre una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell'offerta troppo divaricata; e la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente.

Ricordiamo che, allo stato, vi è il testo-base della proposta di legge sul “fine-vita” approvato dalle Commissioni riunite Giustizia e Sanità del Senato, con il voto contrario di tutte le opposizioni che ha aperto un forte dibattito tra laici e cattolici, soprattutto sulla delicata questione “per chi non è attaccato ai macchinari”. La proposta non prevede una legalizzazione generalizzata dell'eutanasia, ma definisce un perimetro entro cui un soggetto gravemente malato può legittimamente chiedere di porre fine alle proprie sofferenze, senza che ciò configuri un reato per chi eventualmente lo agevoli. Viene previsto un nuovo comma al Codice penale (art. 580, comma 2-bis) che esclude la punibilità per chi agevola il proposito di morte di una persona in determinate condizioni cliniche, purché la volontà sia libera, consapevole e accertata da un apposito Comitato Nazionale di Valutazione, istituito per verificare la sussistenza dei requisiti stabiliti dalla Consulta.

Chi vi parla” continua a pensare che - nella colpevole inerzia del Parlamento - il rischio di trovarci davanti a venti leggi regionali in subiecta materia, è assolutamente reale (ivi compresi i relativi conflitti e la irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche tra pazienti sofferenti), e nel ringraziare per il gradito invito, ci si permette di sottolineare con più tratti di penna, che per i cattolici la vita è un dono sacro, per chi, invece, si riconosce in una visione laica, la vita è un bene fondamentale, da tutelare nel pieno rispetto della libertà individuale; ma ciò che deve unire entrambe le prospettive è il valore della dignità dell'uomo (Per una valutazione approfondita sul delicato tema della “dignità dell'uomo, si rinvia a Papa Francesco ne il “Messaggio del Santo Padre al Presidente della Pontificia Accademia per la Vita”, in occasione del Meeting Regionale Europeo della “World Medical Association” sulle questioni del “fine-vita” (Vaticano, 16-17 novembre 2017), 16.11.2017.).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario