Pacchetto sicurezza: la riforma del differimento dell’esecuzione per le donne incinte o madri di prole di tenera età
Fabio Fiorentin
02 Settembre 2025
La legge 9 giugno 2025, n. 80, di «Conversione in legge del decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell'usura e di ordinamento penitenziario» (c.d. “decreto sicurezza”) entrato in vigore il 12 aprile 2025, introduce alcune importanti novità sul versante penitenziario e dell'esecuzione penale, riformando estesamente l'istituto del differimento della pena (art. 146 e 147 c.p.).
Differimento “obbligatorio” e “facoltativo” della pena: il bilanciamento dei valori costituzionali
Le ipotesi di differimento dell'esecuzione della pena, disciplinate dagli artt. 146,147 e 211-bis c.p. costituiscono eccezionali e tassative ipotesi in cui la pena detentiva o la misura di sicurezza sono temporaneamente differite in presenza delle condizioni previste dalla legge, essenzialmente per ragioni umanitarie e di tutela della maternità o della prole di tenera età.
Il relativo procedimento applicativo è disciplinato, nel codice di procedura penale, agli artt. 666, 667 comma 4, 678 e 684 c.p.p.
Dal punto di vista sostanziale, si distinguono due tipologie di differimento della pena. La prima, conosciuta come differimento c.d. “obbligatorio” (art. 146 c.p.), è così denominata perché il giudice, accertata la sussistenza dei presupposti di legge, ha ristrettissimi margini di discrezionalità nella decisione circa l'applicazione del beneficio (che si configura, dunque, come sostanzialmente “obbligatorio”), potendo solo optare – nei casi in cui potrebbe essere adottato il rinvio dell'esecuzione – per l'applicazione della detenzione domiciliare “surrogatoria” (art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit.).
Antecedentemente al decreto-legge in analisi, il differimento “obbligatorio” della pena operava nei seguenti casi:
donna incinta;
madre di infante di età inferiore ad anni uno;
persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertata ai sensi dell'articolo 286-bis, comma 2, c.p.p., ovvero da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato detentivo, quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative.
Nelle prime due ipotesi, una volta accertato il presupposto oggettivo posto a fondamento dell'istanza o dell'avvio di ufficio del procedimento (ovverossia lo stato di gravidanza o l'esistenza in vita della prole di età inferiore all'anno), il giudice doveva verificare ulteriormente che la gravidanza non si fosse interrotta, che la madre non fosse dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale sul figlio (art. 330 c.c.), che il figlio non fosse deceduto, non fosse stato abbandonato o affidato ad altri. In assenza delle sopra indicate circostanze ostative, il beneficio doveva essere concesso, eventualmente nelle forme della detenzione domiciliare (art. 47-ter, comma 1-ter ord. penit.).
Nel caso di infezione da HIV, grave deficienza immunitaria o altra grave malattia, l'applicazione del beneficio resta subordinata ad una valutazione discrezionale operata, caso per caso, dal giudice sulla compatibilità delle condizioni di salute della persona con lo stato detentivo e sull'eventuale pregiudizio per la restante popolazione carceraria (C. cost., 18 ottobre 1995, n. 438, che ha dichiarato incostituzionale, per contrasto con l'art. 3 Cost., l'art. 146, n. 3, c.p.; negli stessi termini si è espressa anche la sentenza costituzionale 8 ottobre 2009, n. 264).
La seconda tipologia, detta differimento della pena “facoltativo” (art. 147 c.p.), anteriormente al d.l. n. 48/2025 poteva essere applicato in tre casi:
se è presentata domanda di grazia e l'esecuzione della pena non deve esser differita a norma dell'art. 146 c.p.;
se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica;
se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita nei confronti di madre di prole di età inferiore a tre anni.
A differenza dell'istituto disciplinato dall'art. 146 c.p., il giudice di sorveglianza dispone, in queste ipotesi, di un ampio margine di discrezionalità nel decidere sull'applicazione del beneficio alla luce delle caratteristiche del singolo caso; potendo, in particolare, bilanciare le esigenze umanitarie e di tutela della prole sottese al beneficio con quelle di difesa sociale e potendo, quindi, non applicare il differimento (o la detenzione domiciliare “in surroga” del medesimo) qualora sussista il pericolo di commissione di ulteriori delitti.
La disciplina delle fattispecie di differimento dell'esecuzione della pena così sinteticamente riassunta cristallizzava un bilanciamento dei valori costituzionali in gioco, contemperando l'esigenza di effettività dell'esecuzione della pena con la tutela di alcuni beni di rilevanza costituzionale (quali, segnatamente, la salute e la tutela dell'armoniosa crescita della prole), in tal modo assicurando che l'esecuzione stessa si realizzi con modalità tali da non violare il principio di umanità e la dignità della persona umana, la cui tutela ha copertura costituzionale (art. 27, comma 3, Cost. vieta, infatti, che le pene costituiscano trattamenti “contrari al senso di umanità”) e convenzionale (l'art. 3 CEDU impone una tutela assoluta della dignità umana).
In tale contesto, la salvaguardia delle esigenze di prevenzione speciale avviene con la possibilità di applicazione della detenzione domiciliare c.d. “surrogatoria” (art. 47-ter, comma 1-ter ord. penit.) e, in alcuni casi, con la possibilità per il giudice di negare l'applicazione della misura.
Un tale bilanciamento di valori costituzionalmente tutelati è stato validato dallo scrutinio della Corte costituzionale, la quale, con ordinanza n. 145/2009, ha ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 146, comma 1, nn. 1) e 2), sollevate in riferimento agli artt. 3,27, comma 3, e 30 Cost.
La Consulta, valutando il disposto dell'art. 146 c.p., ha osservato che la evocata disposizione, ponendo una presunzione assoluta di incompatibilità con il carcere per la donna incinta o che abbia partorito da meno di un anno, «è mossa dall'esigenza di offrire la massima tutela al nascituro e al bambino di età inferiore ad un anno […], e mira ad evitare che l'inserimento in un contesto punitivo e normalmente povero di stimoli possa nuocere al fondamentale diritto tanto della donna di portare a compimento serenamente la gravidanza, quanto del minore di vivere la peculiare relazione con la figura materna in un ambiente favorevole per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico»; - che «non irragionevolmente il legislatore, il quale gode di ampia discrezionalità al riguardo […], ha ritenuto, con riferimento al periodo della gravidanza e al primo anno del bambino, che la protezione del rapporto madre-figlio in un ambiente idoneo debba prevalere sull'interesse statuale all'esecuzione immediata della pena», intendendosi così «privilegiare esigenze di natura umanitaria ed assistenziale che hanno un sicuro fondamento costituzionale».
Il Giudice delle leggi ha puntualizzato, altresì, che «il rinvio obbligatorio del momento esecutivo non esclude che la pena irrogata possa svolgere alcuna funzione di intimidazione e dissuasione e non ne vanifica pertanto il profilo retributivo-afflittivo», poiché non ci si trova «di fronte ad una rinuncia sine die alla relativa esecuzione, ma solo ad un differimento per un periodo limitato» e «negli stessi casi in cui potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio della esecuzione della pena […] il tribunale di sorveglianza può – a norma dell'art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 […] – disporre, anche ex officio, l'applicazione della detenzione domiciliare, e così assicurare, anche nell'immediato, le istanze di difesa sociale, sempre che sia compiuta una idonea valutazione della compatibilità di quella misura alternativa con la condizione legittimante il rinvio». Osserva, infine, la Corte che «comunque, anche nei casi nei quali la misura della detenzione domiciliare non sia in concreto praticabile, deve escludersi che il differimento della pena integri un fattore di compromissione delle contrapposte esigenze di tutela collettiva», giacché «a determinare una situazione di pericolo» non è la pena differita in sé, «ma, semmai, la carenza di adeguati strumenti preventivi volti ad impedire che la condannata, posta in libertà, commetta nuovi reati; tuttavia, se a colmare una simile carenza può provvedere soltanto il legislatore, deve escludersi che la eventuale lacunosità dei presidi di sicurezza possa costituire, in sé e per sé, ragione sufficiente per incrinare, sull'opposto versante, la tutela dei valori primari che la norma impugnata ha inteso salvaguardare […]».
Il nuovo bilanciamento dei valori costituzionali favorisce le esigenze di difesa sociale
La riforma del differimento della pena portata dal decreto-legge in commento segna una netta inversione di tendenza, allontanandosi dall'assetto cristallizzato dalla precedente disciplina e introducendo un nuovo punto di equilibrio, decisamente più sbilanciato in favore della salvaguardia delle esigenze di difesa sociale anche in contesti in cui vengono in rilievo la tutela della maternità e i best interests of the child secondo la definizione dell'art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo ratificata con la legge 27 maggio 1991, n. 176 nonché i principi sanciti degli artt. 27, comma 3, Cost. sotto il profilo del senso di umanità che deve caratterizzare l'esecuzione della pena e 31 della Carta, che attribuisce alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l'infanzia.
Su tali profili si è pronunciata una ormai copiosa giurisprudenza costituzionale: si rammenta, al proposito, quanto affermato dalla Consulta, alla luce dei principi della Carta fondamentale (artt.2, 30 e 31 Cost.), in tema di tutela delle persone minorenni (sentenza n. 11 del 1981); di sterilizzazione delle preclusioni alla concessione della detenzione domiciliare speciale e ordinaria per le detenute madri condannate per taluno dei delitti di cui all'art. 4-bis ord. penit. (sentenze n. 239 del 2014 e n. 76 del 2017), nonché di applicazione delle stesse misure alle madri di figli gravemente disabili a prescindere dall'età di questi ultimi (sentenza n. 18 del 2020).
Il Giudice delle leggi aveva, inoltre, riconosciuto che il differimento obbligatorio della pena di cui all'art. 146 c.p. nei confronti della donna incinta o madre di prole di tenera età avesse fondamento costituzionale nei già ricordati artt. 27 comma 3 e 31 Cost. e che alla ratio dell'istituto, ora abrogato nella sua versione “obbligatoria”, fosse sottesa l'esigenza di evitare che «l'inserimento in un contesto punitivo e normalmente povero di stimoli possa nuocere al fondamentale diritto tanto della donna di portare a compimento serenamente la gravidanza, quanto del minore di vivere la peculiare relazione con la figura materna in un ambiente favorevole per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico» (C. cost., n. 145 del 2009).
La ratio della natura “obbligatoria” del differimento della pena per le condannate in stato di gravidanza o madri di prole di tenera età rispondeva, in definitiva, all'esigenza di salvaguardare l'armonioso sviluppo del bambino di tenera età alla luce delle evidenze per cui crescere nei primi mesi ed anni di vita in una condizione detentiva priva o quasi di adeguate stimolazioni sensoriali può comportare del gravissimo pregiudizio ai piccoli forzatamente detenuti con le proprie madri, compromettendone sensibilmente lo sviluppo psicomotorio.
La riforma portata dal decreto-legge in esame, introducendo un bilanciamento per effetto del quale il valore di tutela della prole di tenera età appare recessivo rispetto alle esigenze di difesa sociale, immuta il precedente equilibrio fondato, invece, sulla prevalenza del primo sulle seconde.
Graverà ora interamente sulla magistratura di sorveglianza ponderare, nella dosimetria applicativa del differimento “riformato”, tutti i valori in gioco, avendo quale stella polare il criterio per cui, nell'operare una tale bilanciamento, non potrà mai essere sacrificato interamente il valore costituzionale protetto dall'art. 31 Cost. in nome delle altre esigenze che pure l'esecuzione della pena può legittimamente perseguire, tenendo conto della necessità, costituzionale e convenzionale, di assicurare l'umanità dell'esecuzione della pena e – con specifico riferimento alle detenute madri - altresì l'esigenza di tutelare il valore che la Costituzione e le fonti sovranazionali annettono alla tutela della maternità e del prevalente interesse dell'infante.
Alla luce di tali coordinate, dunque, la valutazione delle esigenze di difesa sociale dovrà essere condotta prendendo in esame la compatibilità con le medesime delle alternative alla detenzione carceraria, in particolare esaminando la possibilità che il pericolo di recidiva possa essere escluso mediante l'applicazione della detenzione domiciliare “surrogatoria” e la predisposizione di idonei strumenti di controllo.
L'abrogazione del differimento “obbligatorio” della pena (art. 146 c.p.)
La nuova disciplina introdotta con il d.l. n. 48/2025 interviene – come si è anticipato - rimodulando i termini del bilanciamento tra valori in gioco, incidendo su una materia che involge alcuni diritti fondamentali e il rispetto degli evocati princìpi costituzionali e convenzionali.
L'art. 15 del decreto-legge n. 48/2025 modifica, infatti, estesamente l'istituto del differimento della pena nei confronti di donne incinte e madri di prole di età inferiore a un anno.
Precisamente, l'art. 15, lett. a), del decreto legge, incide “chirurgicamente” sull'art. 146 c.p., sopprimendo i numeri 1) e 2) che disciplinavano i casi di rinvio “obbligatorio dell'esecuzione della pena” nei confronti delle condannate incinte o madri di infanti di età inferiori a un anno ed abrogando, altresì, il secondo comma, che prevedeva la non applicabilità del differimento (o la sua revoca qualora fosse stato disposto) nel caso in cui la gravidanza si fosse interrotta, la madre fosse dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale, se il figlio fosse morto, fosse stato abbandonato o affidato ad altri.
L'unica ipotesi residua di differimentodi natura “obbligatoria” tuttora vigente resta, pertanto, quella di cui al n.3 dell'art. 146 c.p., relativa ai detenuti affetti da AIDS, da altra grave immunodeficienza ovvero da altra grave patologia.
La prima e più immediata ricaduta sistematica della riforma è, dunque, la trasformazione delle sopra indicare ipotesi di differimento da fattispecie a connotazione sostanzialmente “obbligatoria” a casi connotati da applicazione discrezionale da parte del giudice di sorveglianza. Infatti, la disciplina del differimento della pena in favore della donna incinta o madre di prole di tenera età è integralmente traslata nella disposizione dell'art. 147 c.p., anch'esso interessato da incisive modifiche da parte del d.l. n. 48/2025.
L'intervento sulle ipotesi di differimento “facoltativo” della pena
L'art. 15 lett. b) del decreto-legge n. 48/2025 riformula integralmente il punto n. 3) dell'articolo 147 c.p. Tale disposizione – come è noto - prevedeva il differimento “facoltativo” dell'esecuzione nei confronti di condannata madre di prole di età inferiore a tre anni.
La nuova dizione normativa introdotta stabilisce che il rinvio dell'esecuzione può essere concesso «se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita nei confronti di donna incinta o di madre di prole di età inferiore a un anno» (recependo quindi le ipotesi prima disciplinate nelle disposizioni della parte abrogata dell'art. 146, nn. 1) e 2) c.p.).
Inoltre, un nuovo numero 3-bis inserito nel comma 1 dell'art. 147 c.p. consente analogo beneficio «se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita nei confronti di madre di prole di età superiore a un anno e inferiore a tre anni».
Contrariamente a quanto accadeva nell'assetto previgente, la disciplina codicistica modificata dal d.l. n. 48/2025 parifica l'ipotesi della condannata incinta o madre di infante di età inferiore ad un anno e quella della donna detenuta madre di prole di età non superiore a tre anni sotto il profilo della natura discrezionale e non più “obbligatoria” della decisione giudiziale.
L'equiparazione delle due fattispecie si riproduce anche nella disciplina della revoca del beneficio che, in tutte le viste ipotesi, resta la stessa (art. 15, comma 1, lett. b, n.2, punto 2.1 del decreto-legge in esame) mentre in precedenza operavano, per il differimento applicato a donne incinte o madri di infanti di età inferiore a un anno, gli specifici casi di revoca indicati nel comma 2 dell'art. 146 c.p. (ora abrogato).
Precisamente, ai sensi della precedente disciplina:
nel caso di donna incinta o madre di prole di età inferiore all'anno: il differimento non opera o, se concesso, è revocato se la gravidanza si interrompe, se la madre è dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale sul figlio ai sensi dell'art. 330 c.c., il figlio muore, viene abbandonato ovvero affidato ad altri, sempreché l'interruzione di gravidanza o il parto siano avvenuti da oltre due mesi;
nel caso di madre di prole di età inferiore a tre anni: il beneficio è revocato qualora la madre sia dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale sul figlio ai sensi dell'art. 330 c.c., il figlio muoia, venga abbandonato o affidato ad altri che alla madre; inoltre, il differimento non può essere adottato o, se adottato, è revocato se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti.
In seguito alla riforma portata dal d.l. n. 48/2025 la disciplina della revoca è, invece, la seguente:
- nel caso di donna incinta, di madre di prole di età non superiore a un anno e di madre di prole di età superiore a un anno e inferiore a tre anni: il provvedimento è revocato, qualora la madre sia dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale sul figlio ai sensi dell'art. 330 c.c., il figlio muoia, venga abbandonato o affidato ad altri che alla madre, ovvero quando quest'ultima, durante il periodo di differimento, pone in essere comportamenti che causano un grave pregiudizio alla crescita del minore; il beneficio non può essere concesso o, se concesso, è revocato se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti. Inoltre, il differimento non può essere applicato se da esso derivi una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti.
Per inciso, si osserva che la nuova disciplina dei casi di revoca del differimento introdotta con il decreto-legge in commento, sparisce l'ipotesi dell'interruzione di gravidanza dalle fattispecie che impongono il rigetto o la revoca del differimento della pena.
La disciplina della revoca del differimento per le donne incinte o madri è – come si può notare - inasprita dall'introduzione (ad opera dell'art. 15, comma 1, lett. b, n. 2, punto 2.2. del d.l. n. 48/2025) di una circostanza – in precedenza non prevista - idonea a provocare tale negativo esito, che si materializza quando la madre «durante il periodo di differimento, pone in essere comportamenti che causano un grave pregiudizio alla crescita del minore». Si tratta di un profilo il cui apprezzamento è connotato da un margine di discrezionalità davvero elevato da parte del giudice, che potrà fondare la propria decisione sulle valutazioni dei servizi minorili e su quelle del consultorio familiare che dovrà eventualmente essere coinvolto.
La maggiore severità impressa dalla riforma si coglie, altresì, in una disposizione di nuovo conio, il quinto comma dell'art. 147 c.p. (introdotto dall'art. 15, comma 1, lett. b, n. 3 del decreto-legge in esame) ove si stabilisce che: «Nei casi indicati nei numeri 3) e 3-bis) del primo comma, l'esecuzione della pena non può essere differita se dal rinvio derivi una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti».
In tale caso, nell'ipotesi di cui al numero 3-bis), l'esecuzione può avere luogo presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri, ove le esigenze di eccezionale rilevanza lo consentano; nell'ipotesi di cui al numero 3), l'esecuzione deve comunque avere luogo presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri.
In concreto, pertanto, rispetto all'assetto previgente viene estesa alla condannata incinta o madre di infante di età inferiore all'anno la previsione – un tempo riservata al solo caso del differimento relativo a madre di prole di età inferiore a tre anni - per cui la sussistenza di esigenze di difesa sociale osta alla concessione del differimento ovvero ne impone la revoca, se già concesso.
Sotto il profilo oggettivo, il legislatore sembra, tuttavia, avere distinto i parametri di valutazione delle esigenze di prevenzione speciale. La nuova disciplina ha, infatti, lasciato intatto il comma 4 dell'art. 147 c.p. che, in tutti i casi di differimento “facoltativo” dell'esecuzione, stabilisce che il beneficio non può essere concesso o, se concesso, è revocato nel caso sussista il “ concreto pericolo” della commissione di delitti mentre, al nuovo quinto comma, ha stabilito, nei (soli) casi indicati nei numeri 3) e 3-bis) del primo comma (quelli, cioè, che riguardano la donna incinta o la madre di prole di tenera età), che l'esecuzione della pena non può essere differita se dal rinvio derivi una situazione di pericolo – che tuttavia deve essere “di eccezionale rilevanza” - di commissione di ulteriori delitti, come può avvenire, a es., nel caso di serialità di pregressi reati contro il patrimonio in carenza di fonti di reddito o di supporti socio-familiari esterni, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza formatasi con riferimento alla corrispondente fattispecie cautelare (che ha ritenuto la sussistenza dell'eccezionale rilevanza «in presenza di comportamenti seriali nel compiere reati contro il patrimonio, documentati da precedenti penali e polizia e nella professionalità manifestata da alcune modalità della condotta, in assenza di redditi e fonti di sostentamento»: Cass. pen., n. 48999/2019).
Seppure difettose dal punto di vista del coordinamento, le disposizioni sopra illustrate portano a ritenere che, nel caso del “nuovo” differimento facoltativo, la valutazione del giudice di sorveglianza, avrà ad oggetto, nel caso di differimento motivato dalle ragioni di tutela della maternità e della prole il pericolo di commissione di ulteriori delitti che sarà ostativo qualora risulti di “eccezionale rilevanza”, laddove negli altri casi di differimento (a es. nell'ipotesi di condannato in gravi condizioni di salute), sarà sufficiente che il suindicato pericolo sia “concreto” non essendo necessario che sia di eccezionale rilevanza.
Secondo la dizione letterale della disciplina in esame, la possibilità di revoca del provvedimento di concessione del differimento potrà, invece, aversi, contraddittoriamente - anche nei casi indicati dai nn. 3 e 3-bis) - al ricorrere del (semplice) “concreto pericolo” di commissione di reati (non sarà, infatti, necessario che ricorra la “eccezionale rilevanza” di tale pericolo).
Infine, tra le due posizioni può ravvisarsi un elemento differenziale che sottende una ratio di maggior tutela delle ragioni inerenti, appunto, alla maternità e alla cura della prole rispetto a quelle di difesa sociale e dunque il sacrificio delle prime soltanto nell'eccezionale ipotesi sopra indicata.
Come si è accennato, nel caso di mancata concessione del differimento (e, deve ritenersi, di una sua revoca) la nuova disciplina introduce una peculiare differenza tra il trattamento delle donne incinte o madri di figli di età inferiore a un anno e quello riservato alle madri di figli di età compresa tra uno e tre anni, sotto il profilo del luogo dell'esecuzione della pena: per le donne incinte o madri di infante di età inferiore a un anno, infatti, la pena dovrà sempre essere eseguita presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri (ICAM) - con divieto quindi di esecuzione della pena nelle sezioni detentive ordinarie - laddove, per le madri di prole di età superiore a uno e fino ai tre anni la pena potrà essere eseguita presso un ICAM solo se le esigenze di eccezionale rilevanza lo consentano.
Come è stato rilevato anche nel corso delle audizioni parlamentari, tale previsione si sarebbe dovuta accompagnare ad un'implementazione del numero degli ICAM attualmente disponibili.
L'attuale scarso numeri di tali articolazioni penitenziare e la loro non uniforme distribuzione sul territorio importeranno, infatti, la conseguenza che, nella maggior parte dei casi, la detenuta madre, soprattutto se residente in una delle regioni del Sud, sarà posta di fronte alla scelta tra la prosecuzione della gravidanza e la cura del neonato in un luogo detentivo lontano dalla propria realtà sociofamiliare o la collocazione in un contesto viciniore agli altri affetti presenti nel proprio territorio, teoricamente garantita dagli artt. 28 e 42, comma 2, dell'ordinamento penitenziario.
Gli spazi applicativi per la detenzione domiciliare “in surroga” e ordinaria (art.47-ter ord. penit. lett. a) e 47-quinquies ord. penit.)
Un profilo che la riforma non ha direttamente affrontato riguarda la possibilità, nei casi indicati nell'art. 147 c.p. post riforma, che il giudice di sorveglianza disponga l'applicazione della detenzione domiciliare c.d. “surrogatoria” del differimento della pena (art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit.).
Il dubbio applicativo ha ragione di porsi considerando che, dal momento che il legislatore non ha espressamente modificato la evocata disposizione di matrice penitenziaria, deve ritenersi che la voluntas legis non fosse quella di precludere tale possibilità anche nei casi indicati ai nn. 3 e 3-bis del “nuovo” art. 147 c.p.
È dunque possibile ritenere che, in via generale, tale possibilità permanga anche in seguito alla riforma portata dal d.l. n. 48/2025. Questa soluzione applicativa sembra, tuttavia, preclusa nelle ipotesi di divieto di concessione del rinvio dell'esecuzione in presenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti (commi 4 e 5 dell'art. 147 c.p.).
A tale soluzione appare condurre, anzitutto, il contesto sistematico, che impone al giudice di sorveglianza, nella valutazione di concedibilità di qualsiasi beneficio penitenziario, di considerare le esigenze di prevenzione speciale (in molti casi, il detto parametro è espressamente riprodotto nella trama normativa: si veda a es. l'art. 47, comma 2, ord. penit., in tema di affidamento in prova al servizio sociale; art. 47-ter, comma 1-bis, in relazione alla detenzione domiciliare; l'art. 1 l. n. 199/10 con riguardo all'esecuzione della pena presso il domicilio).
Vi è, inoltre, nello specifico, un non trascurabile dato letterale emergente, per un verso, dalla dizione del comma 1-ter, art. 47-ter ord. penit. (che consente al giudice di sorveglianza l'applicazione della detenzione domiciliare “in surroga” nei casi in cui “potrebbe” essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo dell'esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 c.p.) e, per l'altro verso, dalle espressioni utilizzate nei commi 4 (il provvedimento di cui al primo comma “non può essere adottato”) e 5 (l'esecuzione della pena “non può essere differita”) dell'art. 147 c.p. riformato.
Da una lettura coordinata delle disposizioni sopra richiamate pare, in definitiva, discendere che al giudice di sorveglianza, qualora non sussistano i presupposti per la concessione del rinvio dell'esecuzione, alla luce dell'accertata sussistenza del pericolo di reiterazione delle condotte delittuose (che, si ribadisce, nei casi delle condannate incinte o madri deve essere di “eccezionale rilevanza”) sia, altresì, preclusa l'applicazione della detenzione domiciliare “surrogatoria”, laddove tale misura potrà invece essere concessa qualora tale pericolo così rilevante nel caso concreto non sussista.
Tale ricostruzione sembra, altresì indirettamente confermata dalla previsione di cui al quinto comma dell'art. 147 c.p. che, stabilisce, nei casi in cui il differimento di cui ai nn.3 e 3-bis non sia applicato, la detenzione in forma carceraria.
Un ulteriore problema applicativo deriva dal mancato espresso coordinamento tra la modifica degli artt. 146 e 147 c.p. e la disciplina della detenzione domiciliare di cui all'art. 47-ter ord. penit., che il decreto-legge in esame lascia immutata. Ci si chiede, infatti, se la riforma ponga qualche preclusione alla concessione delle tipologie di detenzione domiciliare previste in relazione alla tutela della prole minore d'età (art.47-ter, lett. a) e 47-quinquies ord. penit.) per le condannate nei cui confronti sia stata respinta l'istanza di differimento della pena e che, in forza della previsione di cui al nuovo comma quinto dell'art. 147 c.p. siano state ristrette in carcere o presso un ICAM.
Alla luce del dato letterale, deve ritenersi non ostativo alla possibilità, per le condannate che si siano viste negare il differimento della pena, di chiedere – ricorrendone i presupposti e le condizioni – l'applicazione delle tipologie di detenzione domiciliare che l'ordinamento prevede per le detenute madri (detenzione domiciliare per la cura della prole di cui all'art. 47-ter, lett. a, ord. penit. e detenzione domiciliare speciale prevista dall'art. 47-quinquies della medesima legge).
Non pare, infatti, ostare a tale ricostruzione la previsione della obbligatoria esecuzione della pena presso un ICAM nel caso di mancato differimento della pena nei confronti di madre incinta o di figlio di età inferiore a un anno stabilita dalla riforma poiché tale profilo della nuova disciplina non può che riferirsi, appunto, alla modalità esecutiva della detenzione in carcere ma non potrebbe essere letta quale preclusione (tra l'altro, in linea di tesi, assoluta) in rapporto alla concessione dei benefici penitenziari extramurari.
Il profilo che, in concreto, dovrà essere valutato dal giudice di sorveglianza sarà, piuttosto, quello della compatibilità delle esigenze preventive rilevanti nei casi di condannate per le quali il differimento della pena sia stato negato proprio in rapporto alla ritenuta sussistenza del pericolo – particolarmente elevato - di commissione di nuovi delitti e le prescrizioni che possono corredare la misura domiciliare extramuraria.
I profili processuali
Sul piano processuale, l'art. 15, comma 7, d.l. n. 48/2025 modifica il disposto dell'art. 678, comma 1-bis, c.p.p., così inducendo una significativa modifica della procedura seguita fino ad oggi per l'applicazione del differimento della pena.
Infatti, mentre ai sensi della previgente disciplina, nel caso del differimento della pena di cui agli (ora abrogati) nn.1) e 2) dell'art. 146 c.p., il tribunale di sorveglianza procedeva in camera di consiglio non partecipata ai sensi dell'art. 667, comma 4, c.p.p., ora, poiché le ipotesi di differimento della pena sono tutte previste nell'art. 147 c.p., anche i procedimenti relativi al differimento della pena per le donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno saranno trattati in udienza camerale in presenza delle parti. La nuova disciplina, avendo natura processuale, è di immediata applicazione secondo il principio tempus regit actum, trovando quindi applicazione ai procedimenti in corso al momento dell'entrata in vigore del d.l. n. 48/2025.
Con riguardo alla disciplina del differimento dell'esecuzione delle misure di sicurezza contenuta nell'art. 211-bis c.p., si osserva che essa rinvia alle disposizioni degli art. 146 e 147 c.p., consente di applicare, in luogo del rinvio dell'esecuzione della misura di sicurezza, il ricovero in una casa di cura o in un altro luogo di cura, qualora si tratti di soggetti autori « di un delitto consumato o tentato commesso con violenza contro le persone ovvero con l'uso di armi » e quando sia accertata la sussistenza di un «concreto pericolo» di recidiva in relazione alla medesima tipologia di delitti. Tale disposizione speciale mantiene, dunque, la propria vigenza anche alla luce della riforma portata con il d.l. n. 48/2025.
Per completezza espositiva, si rammenta che, ai sensi dell'art. 15, comma 8, del decreto-legge si prevede che il Governo presenti alle Camere una relazione annuale sull'attuazione delle misure cautelari e dell'esecuzione delle pene non pecuniarie nei confronti delle donne incinte e delle madri di prole di età inferiore a tre anni.
La natura delle nuove disposizioni e il regime applicativo ratione temporis
Una delicata questione interpretativa, che avrà fin dalla prima applicazione della nuova disciplina una rilevante ricaduta pratica, concerne la possibilità che le nuove disposizioni abbiano applicazione retroattiva con riferimento, cioè, alle pene relative a condanne per fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore del d.l. n. 48/2025 (11 aprile 2025) ovvero se trovino, invece, applicazione solo per fatti commessi successivamente.
La risoluzione del problema implica l'identificazione della natura – sostanziale o processuale – della nuova disciplina, sulla scìa dei principi affermati dalla sentenza costituzionale n. 32 del 2020 che pronunciandosi sulla valenza del divieto di retroattività in pejus delle norme incidenti sul “trattamento sanzionatorio” ha dichiarato l'illegittimità costituzionale ai sensi dell'art. 25, comma 2, Cost., dell'applicazione retroattiva di disposizioni che introducono limiti, preclusioni e, più in generale, una disciplina peggiorativa delle condizioni di accesso ai benefici penitenziari che comportano l'uscita dalla condizione di restrizione della libertà personale propria della detenzione carceraria, sancendo che: «l'applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene, sancito dall'articolo 25, comma 2, della Costituzione».
La Consulta ha rilevato che, quando la normativa sopravvenuta non incide sulle modalità esecutive della pena attuate al momento della commissione del reato, ma opera una vera e propria trasformazione della medesima, nel senso che incide sulla stessa possibilità di accedere a misure e benefici esterni al carcere (la differenza tra il “fuori” e il “dentro”), allora tale modifica normativa entra nell'ambito del divieto di cui all'art. 25, comma 2, Cost. In questi casi, infatti, la nuova disciplina più rigorosa, se non applicata ai soli fatti commessi successivamente, determinerebbe un trattamento che sostanzialmente si risolve in un aliud rispetto a quello legalmente stabilito al momento della violazione penale, incidendo sulle garanzie che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva in malam partem.
Il Giudice delle leggi ha spiegato che la valutazione va operata, in generale, in chiave di prognosi, comparando la pena che era ragionevole attendersi in base alla legislazione vigente al tempo della commissione del reato e quella che potrebbe derivare per effetto del nuovo quadro normativo.
Il carattere di maggiore afflittività sussiste quando il condannato può essere assoggettato a un trattamento "più severo" rispetto a quello che era ragionevolmente prevedibile nel momento di commissione del reato, avuto riguardo, sia pur in termini probabilistici, all'accesso a modalità extramurarie di esecuzione della sanzione, in particolare alle misure alternative alla detenzione, quali misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena ossia sul grado di privazione della libertà personale e costituiscono ad ogni effetto "pene" alternative alla detenzione.
Da questo punto di vista, l'eventuale diniego del differimento della pena produce effettivamente la conseguenza che l'inizio della vicenda esecutiva avvenga in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull'eventuale concessione di una misura alternativa (a es. della detenzione domiciliare ordinaria o speciale); e dunque postula che almeno una parte della pena sia effettivamente eseguita in carcere anziché con modalità extramurarie consentite dall'ordinamento.
Alla luce delle sopra richiamate coordinate costituzionali, è quindi plausibile qualificare il differimento della pena quale misura di natura sostanziale poiché incide sulla qualità della pena, cioè sul grado di privazione della libertà personale e tale qualificazione condurrebbe necessariamente a ritenere che la nuova disciplina, poiché irrigidisce le condizioni di accesso al differimento della pena non possa avere applicazione retroattiva.
In tale senso si è orientata una pronuncia della magistratura di sorveglianza (Mag. Sorv. Bologna, 3 giugno 2025, n. 4275).
A tale soluzione interpretativa si contrappone la tesi per cui i princìpi affermati nella sentenza n. 32/2020 non potrebbero trovare applicazione con riguardo all'istituto del differimento della pena, sia perché quest'ultimo si applica alla generalità dei reati (dunque, ben difficilmente potrebbe sostenersi che la più severa disciplina introdotta dal d.l. 48/2025 trasforma la pena in un “aliud” rispetto ad una specifica fattispecie di reato); sia perché lo stato di gravidanza è dato fattuale meramente eventuale e futuro rispetto alla situazione della persona al momento della commissione del reato e soprattutto alla esecuzione della pena che interviene, secondo l'id quod plerumque accidit, a molti anni dalla commissione del fatto-reato.
I possibili profili di incostituzionalità della nuova disciplina
La dottrina ha criticato la nuova disciplina del differimento della pena denunciando «la presenza di deviazioni da un diritto penale del fatto, inteso come fatto offensivo di un bene giuridico, a favore di un diritto penale d'autore, un diritto penale che guarda non a ciò che l'uomo fa, bensì a quel che l'uomo è, dove per ‘uomo' deve intendersi una categoria di uomini, ritagliata secondo stereotipi più o meno plausibili» (Dolcini).
Nel caso della riforma del differimento della pena, la critica mossa dalla dottrina si rivolge, in particolare, alla scelta sottesa alle modifiche di maggiore severità della disciplina, di colpire le borseggiatrici nomadi accusate di sottrarsi alla pena utilizzando strumentalmente le gravidanze e la maternità e al possibile contrasto con i principi costituzionali di tutela della maternità e dell'infanzia (art. 31, comma 2, Cost.) e di umanità della pena (art. 27, comma 3, Cost.), considerando anche le condizioni materiali di detenzione in cui si vive negli istituti di pena italiani e i pochi ICAM dove accogliere le madri e i loro figli piccoli, la cui dislocazione può allontanare le condannate dal luogo di residenza del resto della famiglia.
La nuova disciplina è stata, inoltre, ritenuta non compatibile con le Regole penitenziarie europee del 2006 e con le Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reati (cd. Regole di Bangkok) e, in particolare, con la Regola n. 34.3, secondo la quale «le donne detenute devono essere autorizzate a partorire fuori dal carcere», essendo evidentemente impossibile prevedere quando avverrà il parto e con la Regola 64, secondo la quale, in nome dell'«interesse superiore del bambino o dei bambini», «le pene non privative della libertà devono essere privilegiate, quando ciò sia possibile…, per le donne incinte e per le donne con bambini».
Le criticità applicative
Come si è già accennato, la nuova disciplina contenuta nell'art. 147 c.p. vede la compresenza di due criteri di valutazione della compatibilità del differimento della pena con le esigenze di difesa sociale. Il primo, stabilito dal comma 4, della disposizione in esame, a cui mente il beneficio non può essere adottato o, se adottato, è revocato «se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti; il secondo, introdotto dal nuovo comma 5, secondo cui l'esecuzione della pena non può essere differita «se dal rinvio derivi una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti».
Una lettura coordinata delle due disposizioni in chiave sistematica porta a ritenere che, nei casi indicati nel comma 1 dell'art. 147 c.p., il giudice si orienterà alla luce del parametro indicato al comma 4 (valutando cioè la sussistenza di un pericolo “concreto” di commissione di nuovi delitti), mentre nei casi di donna incinta o madre di prole di tenera età, verrà in rilievo il solo pericolo di commissione di nuovi delitti che abbia “eccezionale rilevanza”.
Sotto l'aspetto applicativo, inoltre, lo scarso numero di ICAM e la irrazionale distribuzione sul territorio (attualmente, esistono solo quattro ICAM, a Torino, Milano, Venezia e Lauro), comporteranno non solo difficoltà nella allocazione delle detenute se il loro numero dovesse aumentare per effetto delle restrizioni introdotte dalla nuova disciplina, ma – come si è già accennato – altresì contrasti con il principio di territorialità che dovrebbe presiedere alla individuazione del luogo di esecuzione della pena.
Il principio di territorialità implica, infatti, che il condannato sia detenuto in istituto quanto più possibile prossimo al contesto socio-familiare di riferimento, poiché in tal modo sono favoriti i contatti con i familiari e le figure esterne di riferimento (amici, educatori, etc.) e le possibilità di reinserimento sociale attraverso il lavoro e il mantenimento del ruolo rivestito dal condannato nell'ambito familiare, attraverso l'esercizio del diritto all'affettività con partner, figli e familiari, scongiurando il patologico fenomeno della “desertificazione affettiva” (C. cost., n. 10 del 2024; C. cost., n. 52 del 2025).
Riferimenti
E. Dolcini, Un Paese meno sicuro per effetto del decreto-legge sicurezza, in Sistema penale, 15 maggio 2025;
F. Fiorentin, Detenute madri: maglie strette per il differimento della pena, in Guida al Diritto, 2025, n.16, pagg. 48 ss.
F. Fiorentin, Reato commesso in detenzione, effetti negativi su tutti i benefici, Detenute madri: maglie strette per il differimento della pena, ibidem, pagg. 55 ss.;
F. Palazzo, Decreto sicurezza e questione carceraria, in Sistema penale, 1 maggio 2025;
M. Pelissero, La tutela penale della sicurezza pubblica. Una costante ossessione, in Quest. Giust. Rivista online, 16 luglio 2025
G. Spangher (a cura di), Pacchetto Sicurezza: tutte le novità, Lefebvre Giuffré, Milano, 2025.
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Sommario
Differimento “obbligatorio” e “facoltativo” della pena: il bilanciamento dei valori costituzionali
L'abrogazione del differimento “obbligatorio” della pena (art. 146 c.p.)
L'intervento sulle ipotesi di differimento “facoltativo” della pena
Gli spazi applicativi per la detenzione domiciliare “in surroga” e ordinaria (art.47-ter ord. penit. lett. a) e 47-quinquies ord. penit.)
I possibili profili di incostituzionalità della nuova disciplina