Professionista, struttura e assicuratore: una triangolazione complessa nella responsabilità civile sanitaria
Filippo Martini
Sara Calì
09 Settembre 2025
Con l'Ordinanza del 1° aprile 2025, il Tribunale di Modena, in persona del Giudice, Dott.ssa Martina Grandi, ha rimesso gli atti di causa alla Corte di Cassazione ex art. 363-bis cpc per la risoluzione, in via pregiudiziale, di due questioni in diritto, rispettivamente formulate con i seguenti quesiti:
nell'ipotesi di condanna solidale della struttura sanitaria e del professionista al risarcimento dei danni cagionati dalla colpa lieve del secondo, l'art. 9 l. 8 marzo 2017 n. 24 consenta di attribuire l'intero debito alla struttura in sede di accertamento delle quote nel rapporto interno dei coobbligati e, in caso affermativo, di escludere la rivalsa del professionista nei confronti dell'assicuratore della sua responsabilità civile, ove le parti contraenti abbiano convenuto che l'assicuratore risponda solo della quota dell'obbligazione risarcitoria imputabile all'assicurato;
gli artt. 1915-1932 c.c. e l'art. 11 l. 8 marzo 2017 n. 24 consentano di limitare l'assicurazione della responsabilità civile on claims made alle richieste di risarcimento del danneggiato pervenute per la prima volta all'assicurato in pendenza del contratto, purché denunciate all'assicuratore entro la scadenza del suo termine di durata o in un termine susseguente.
Il caso
Il giudizio innanzi al Tribunale traeva origine dall'opposizione presentata da un paziente di uno studio odontoiatrico rispetto a un decreto ingiuntivo emesso dal Giudice di Pace di Modena in favore di quest'ultimo per il mancato pagamento del compenso di prestazioni rese in favore del primo.
L'opposizione si fondava sull'affermato inadempimento del contratto da parte della struttura e dei professionisti (cui il contraddittorio veniva esteso unitamente alla compagnia assicurativa di uno di essi) e sulla richiesta, in via riconvenzionale, del corrispettivo già pagato e del risarcimento del danno.
Affermava infatti l'opponente la sussistenza di errori diagnostici ed esecutivi commessi nell'ambito di un'operazione di estrazione dentaria multipla con successive implantoprotesi endossee in titanio. Nello specifico, veniva asseritamente trascurata la sintomatologia dolorosa del paziente a seguito dell'intervento e la presenza di un'infezione che ritardava la guarigione, con conseguente pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale (IP 2%).
Con sentenza parziale, il Tribunale di Modena dichiarava l'intervenuta risoluzione del contratto concluso tra l'opponente e la struttura sanitaria, condannando quest'ultima alla restituzione di quanto già pagato dal primo, oltre, in solido con il professionista odontoiatra, al risarcimento del danno.
Rigettava invece le domande proposte nei confronti dell'altro professionista coinvolto nel giudizio.
Contestualmente, con separata ordinanza, il Tribunale rilevava d'ufficio la nullità parziale del contratto di assicurazione di rct del professionista sia per contrarietà agli artt. 1917-1932 cc in tema di gestione delle vertenze legali e pagamento spese di lite, sia (che rileva ai fini del commento) per contrarietà agli artt. 1915-1932 e/o 2965 c.c. laddove limitava l'operatività della garanzia alle sole richieste pervenute all'assicurato in pendenza del contratto purché denunciate all'assicuratore entro la scadenza dello stesso o in un termine susseguente.
Infine, il Tribunale prospettava alle parti il rinvio pregiudiziale, solo in parte coincidente con le questioni rilevate d'ufficio.
Il primo quesito: rapporti interni tra condebitori titolari dell'obbligazione risarcitoria nei confronti del paziente
Come anticipato, il primo quesito rimesso alla Suprema Corte è il seguente:
nell'ipotesi di condanna solidale della struttura sanitaria e del professionista al risarcimento dei danni cagionati dalla colpa lieve del secondo, l'art. 9 l. 8.3.2017 n. 24 consenta di attribuire l'intero debito alla struttura in sede di accertamento delle quote nel rapporto interno dei coobbligati e, in caso affermativo, di escludere la rivalsa del professionista nei confronti dell'assicuratore della sua responsabilità civile, ove le parti contraenti abbiano convenuto che l'assicuratore risponda solo della quota dell'obbligazione risarcitoria imputabile all'assicurato;
Nel testo dell'ordinanza, poi, il Tribunale, ad ulteriore chiarimento del quesito riporta che la questione specifica è se:
l'art. 9 l. L. 8.3.2017 n. 24 («L'azione di rivalsa nei confronti dell'esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave») esprima un principio applicabile in tutte le ipotesi di inadempimento della struttura sanitaria per colpa esclusiva del medico con conseguente equiparazione dei rispettivi regressi (prima interpretazione);
il regresso del professionista continui ad essere disciplinato esclusivamente dall'art. 2055 c.c. con conseguente pariteticità presunta delle quote dell'obbligazione risarcitoria(seconda interpretazione).
Il quesito posto alla Corte di Cassazione riguarda un tema complesso (ma invero già risolto, come diremo infra) che coinvolge la responsabilità civile del medico, della struttura sanitaria e il ruolo dell'assicurazione, alla luce della Legge Gelli-Bianco (L. 8 marzo 2017, n. 24), in particolare dell'articolo 9.
Il Tribunale chiede se, nell'ipotesi in cui una struttura sanitaria e un medico vengano condannati in solido a risarcire un danno causato ad un paziente, sia possibile – nel rapporto interno tra coobbligati – attribuire l'intero debito risarcitorio alla struttura sanitaria, escludendo ogni obbligo di partecipazione economica del professionista salvo ricorra l'accertamento della gravità della colpa o del dolo di quest'ultimo. In altre parole, si vuole sapere se, anche a fronte di una condanna solidale nei confronti del danneggiato, sia legittimo far ricadere l'intero peso economico sulla struttura, sollevando il medico da ogni responsabilità economica interna, in ragione del fatto che la sua colpa è solo lieve.
Il secondo profilo della domanda riguarda l'assicurazione del medico. Se, infatti, si ritiene che la struttura debba sopportare da sola l'intero debito, si pone la questione se l'assicuratore del medico possa legittimamente rifiutarsi di intervenire, nel caso in cui il contratto assicurativo preveda che la compagnia copra solo la quota direttamente imputabile all'assicurato. In sostanza, si chiede alla Corte se la clausola contrattuale che limita la copertura assicurativa alla sola porzione di responsabilità del medico possa avere effetto anche in un contesto in cui, per effetto della disciplina normativa, tale porzione venga azzerata e il medico non sia chiamato a rispondere economicamente.
All'analisi che seguirà si premette che la questione il più delle volte nasce da un frequente errore di qualificazione giuridica che si registra nelle pronunce afferenti le azioni promosse dagli enti nei confronti dei professionisti sanitari. Tali azioni vengono ancora oggi talvolta qualificate come azioni di regresso, con conseguente applicazione dell'art. 2055 del codice civile. In realtà, il problema è solo nominalistico. Come diremo meglio a breve, si tratta propriamente di azioni di rivalsa e in quanto tali devono essere ormai tutte ricondotte alla disciplina speciale introdotta dalla Legge 24/2017. Ne deriva che, per i fatti successivi all'entrata in vigore di tale legge, l'ente può esercitare l'azione nei confronti del sanitario solo al ricorrere dei presupposti espressamente previsti dall'art. 9, ossia in presenza di dolo o colpa grave.
Va aggiunto, inoltre, che anche per i fatti anteriori alla Legge Gelli-Bianco, qualora si tratti di strutture pubbliche, continua a trovare applicazione una disciplina speciale: quella contenuta nei contratti collettivi nazionali di lavoro, che già prevedevano una limitazione dell'azione di rivalsa al solo dolo o colpa grave del medico. In entrambi i casi, dunque, la normativa speciale prevale sulle disposizioni generali del codice civile.
Ritenere diversamente, cioè qualificare nominalmente l'azione come regresso per applicare surrettiziamente l'art. 2055 c.c., significherebbe eludere la disciplina speciale posta dal legislatore e svuotare di significato le tutele sostanziali che questa ha inteso approntare in favore del professionista sanitario. Una simile impostazione rappresenterebbe un commodus discessus, idoneo ad aggirare il chiaro limite normativo che subordina la responsabilità interna del medico alla sola ipotesi di dolo o colpa grave, vanificando così le finalità di certezza e protezione della categoria professionale perseguite dal legislatore con l'intervento riformatore.
Così tratteggiate per sommi capi le questioni, riteniamo comunque opportuno ripercorrere le coordinate normative vigenti in tema di responsabilità sanitaria, con specifico riguardo al riparto interno tra medico e struttura sanitaria. La materia, come noto, è regolata dalla Legge n. 24/2017 (Legge Gelli Bianco) che, seppur foriera di qualche distonia applicativa, ha rappresentato una svolta nel percorso della responsabilità sanitaria poiché, entrando nel vivo dei problemi innescati dalla cd. “medicina difensiva”, ha ridisegnato le regole del gioco riportando il rapporto tra esercente “strutturato” e paziente nell'alveo aquiliano e ponendo invece al centro del sistema l'ente che eroga le prestazioni. Il focus è stato posto sul soggetto che gestisce l'attività o, se si vuole, sull'“imprenditore” che ha il “governo” del proprio rischio perché può conoscere, valutare, coordinare i fattori (anche umani) in cui si sostanzia il proprio modus operandi, e risponderà quindi verso il paziente in via contrattuale (ex artt. 1218 c.c.). È allora naturale, in questa prospettiva, che la posizione del sanitario che ha la veste di “ausiliario” ex art. 1228 cc. (ed è chiamato a “concorrere” alle attività di risk management, ma non a programmarle e a definirle egli stesso) sia, per così dire, più “defilata” e meno esposta (ciò che ne giustifica, appunto, la collocazione entro le maglie dell'art. 2043 c.c.).
Il fatto che oggi, secondo l'art. 7 della legge 24, “l'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043”, esclude quindi ogni possibilità di equivoco e riconduce la responsabilità dell'esercente/ausiliario della struttura entro l'alveo naturale che le è proprio (quello della responsabilità aquiliana), relegando eventuali responsabilità contrattuali alle sole ipotesi in cui il professionista abbia effettivamente agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente e quindi nell'ambito di un rapporto fiduciario direttamente intrattenuto con il “proprio” paziente.
Irrilevante, dunque, il tipo di rapporto che l'ausiliario intrattenga con la struttura (di dipendenza o libero professionale) dal momento che la qualificazione contrattuale attiene solo alla relazione (libero professionale) effettivamente esistente con il paziente.
La Legge 24/2017 persegue quindi in termini chiari l'alleggerimento della posizione dell'esercente la professione sanitaria, il contenimento dei costi assicurativi individuali e di quelli, collettivi, derivanti dalla medicina difensiva, nonché la tutela della salute del paziente e del suo diritto a essere risarcito, ove danneggiato da un errore medico.
D'altronde, se è vero che medico e struttura potranno essere condannati in solido a risarcire il paziente che li abbia entrambi convenuti a fronte dell'errore medico (seppur per titoli diversi, come detto) è pur vero che nel riparto interno la struttura potrà agire in via di rivalsa nei confronti del medico nei soli casi in cui venga accertata una condotta di dolo o colpa grave (soli rischi, come vedremo, in relazione ai quali il medico è chiamato ad assicurarsi con idonea copertura).
L'imputazione di responsabilità, quindi, in questo ambito, non risente della disciplina civilistica di cui all'art. 2055 c.c. (che ammette regresso in misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall'entità delle conseguenze che ne sono derivate) ma è pacificamente disciplinata dalla stessa Legge speciale che ne determina i presupposti (sopra menzionati) all'art. 9.
In mancanza quindi dell'accertamento di una condotta del sanitario caratterizzata da un particolare disvalore (dolo o colpa grave) non vi sarà alcuna possibilità che la struttura recuperi in tutto o in parte quello che è stato corrisposto a titolo di risarcimento in favore del paziente.
Tale previsione potrebbe rivelarsi nella prassi apparentemente distonica rispetto all'imputazione frontale che il medico – insieme alla struttura - subisce nei confronti del paziente (e dunque, rispetto alle discutibili discrasie istruttorie che possono verificarsi nella gestione di conflitti che riguardino entrambi). In realtà, se coordinata con la disciplina del successivo art. 10, che impone alla struttura sanitaria di dotarsi di copertura assicurativa o di altre analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile anche per danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche e private, la norma è coerente.
Tale previsione è stata enfatizzata anche dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 182/2023 laddove ha ribadito: “Le strutture sanitarie hanno, però, anche l'obbligo di coprire con polizze assicurative la responsabilità civile del personale medico di cui esse si avvalgono, per l'ipotesi in cui questo sia chiamato a rispondere in proprio del danno, a titolo di illecito aquiliano (art. 10, comma 1, terzo periodo, in relazione all'art. 7, comma 3). Dunque, mentre il primo tipo di rischio forma oggetto di un'assicurazione per conto proprio, rispetto al secondo si è al cospetto di una assicurazione per conto altrui, secondo lo schema dell'art. 1891 cod. civ., nella quale la struttura sanitaria assume la veste di contraente e il medico quella di assicurato. La logica di tale regime è intuibile: nel caso del medico “strutturato”, si vuole che i costi dell'assicurazione – anche per quanto attiene alla responsabilità extracontrattuale del medesimo verso il paziente - restino a carico della struttura sanitaria”.
La struttura, quindi, a fronte dell'esposizione frontale del medico nei confronti del paziente, è comunque per legge chiamata a tenerlo indenne nei rapporti interni, salva, come detto, la possibilità di agire in rivalsa qualora ricorrano i presupposti del dolo o della colpa grave. Tanto ciò è vero che i medici strutturati sono chiamati ad assicurarsi in proprio – in forza della medesima L. 24/2017 – solamente in ordine a tali rischi, come enfatizzato anche nella medesima pronuncia appena menzionata: “Rimane da dire della categoria dei medici “strutturati”. Costoro non hanno alcun obbligo di assicurazione della propria responsabilità civile verso i pazienti: tale responsabilità deve essere, infatti, coperta – come si è visto – dall'assicurazione (o analoga misura) imposta alla struttura sanitaria per cui operano.
L'obbligo assicurativo dei medici “strutturati” è di diverso ordine. Essi debbono stipulare, cioè, «con oneri a proprio carico», una polizza di assicurazione per colpa grave «[a]l fine di garantire efficacia» all'azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa promossa nei loro confronti, rispettivamente, dalla struttura sanitaria di appartenenza o dal pubblico ministero presso la Corte dei conti, nonché all'azione di rivalsa accordata all'assicuratore che, convenuto con azione diretta dal danneggiato, abbia dovuto risarcire un danno del quale non avrebbe dovuto rispondere in base alle clausole contrattuali, stante l'inopponibilità delle stesse all'attore ai sensi dell'art. 12, comma 2, della stessa legge n. 24 del 2017 (art. 10, comma 3, in relazione agli artt. 9 e 12, comma 3).
In questi termini forniti dalla Legge, quindi, l'impianto risulta assolutamente coerente.
Di fatto, come rilevato da una recentissima pronuncia di merito (Trib Ragusa, 11 luglio 2023) la ratio di tale normativa è quella bilanciare il diritto costituzionale all'esercizio dell'azione, riconosciuto al paziente, con l'esigenza di tutela degli esercenti la professione sanitaria, di fronte ai numeri enormi del contenzioso in ambito medico, sia penale che civile, che porta sempre più spesso i professionisti sanitari a fare ricorso alle pratiche della c.d. “medicina difensiva”. La possibilità di chiamare il professionista sanitario è rimessa esclusivamente alla scelta dei danneggiati, ma laddove costoro si determinino in tal senso, rivolgendo la domanda sia contro la struttura sanitaria che nei confronti del medico, ferma la solidarietà dell'obbligazione verso il paziente, nel rapporto interno le regole non potranno essere che quelle previste dalla normativa sopra richiamata della Legge Gelli.
Partendo da questi – chiari – presupposti, la sentenza della Suprema Corte dovrebbe ragionevolmente affermare che il problema risulta appunto già risolto dalla normativa vigente. L'articolo 9 della Legge Gelli-Bianco, infatti, costituisce una norma speciale che detta una disciplina chiara e inderogabile: l'azione di rivalsa – e quindi anche il regresso – nei confronti del medico è ammessa esclusivamente nei casi di dolo o colpa grave. Ne consegue che, in assenza di questi presupposti, non vi è alcuna possibilità per la struttura sanitaria di rivalersi sul medico, né per l'assicuratore di essere chiamato a rispondere per conto di quest'ultimo. Le più generali norme civilistiche in tema di responsabilità solidale (art. 2055 c.c.) e di obbligazioni plurisoggettive nel rapporto interno (art. 1298 c.c.) devono infatti ritenersi superate e derogate dalla disciplina speciale introdotta dall'art. 9, che si riferisce nominalmente all'azione di rivalsa, ma che in realtà disciplina compiutamente anche i profili del regresso. La norma speciale prevale dunque su quella generale, e detta una regola chiusa che non consente soluzioni differenti nel rapporto interno tra struttura e professionista.
Pertanto, in caso di accertamento di un danno cagionato al paziente dalla colpa esclusiva lieve del professionista, quest'ultimo sarebbe privo di responsabilità economica nel rapporto interno con la struttura, pur potendo essere formalmente condannato in solido con essa. L'impianto delle singole casistiche dovrebbe essere il seguente:
se il paziente ha proposto la domanda solo nei confronti della struttura (artt. 1218 c.c.), questa non può rivalersi contro il medico, salvo ricorra la gravità della colpa nella condotta di quest'ultimo (art. 91 l. cit.);
se il paziente, come nel caso trattato dalla pronuncia in commento, ha chiesto il risarcimento ad entrambi (artt. 1218 e 2043 c.c.), il professionista, una volta adempiuta l'obbligazione risarcitoria (nella misura in cui il paziente esiga, a fronte di una condanna in solido, il pagamento del risarcimento dal professionista) può agire in regresso nei confronti della struttura per l'intero;
se il paziente ha proposto la domanda solo nei confronti del medico (art. 2043 c.c.), questi ha rivalsa nei confronti della struttura sanitaria per l'intero. In tutti i casi è la struttura (o il suo assicuratore) a sopportare il debito.
Ciò detto, la seconda parte del quesito (sull'esclusione della “rivalsa” del professionista nei confronti dell'assicuratore” della sua rct) sembra mal posta, dal momento che, come detto, i medici strutturati sono chiamati ad assicurarsi in proprio – in forza della L. 24/2017 – solamente in ordine ai rischi derivanti dall'accertamento per colpa grave «[a]l fine di garantire efficacia» all'azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa promossa nei loro confronti, rispettivamente, dalla struttura sanitaria di appartenenza o dal pubblico ministero presso la Corte dei conti.
La questione atterà quindi al più alla polizza che la struttura è tenuta a stipulare in favore dei medici strutturati, che comunque, ai sensi dell'art. 3, comma 6 del decreto 232/2023, pro dovrà coprire l'intero ammontare del danno, senza limitarsi alla sola quota parte dell'assicurato
Il secondo quesito: rapporti interni tra condebitori titolari dell'obbligazione risarcitoria nei confronti del paziente
Veniamo ora al secondo quesito, che come anticipato è il seguente:
2- (se, ndr) gli artt. 1915-1932 c.c. e l'art. 11 l. 8.3.2017 n. 24 consentano di limitare l'assicurazione della responsabilità civile on claims made alle richieste di risarcimento del danneggiato pervenute per la prima volta all'assicurato in pendenza del contratto, purché denunciate all'assicuratore entro la scadenza del suo termine di durata o in un termine susseguente.
La seconda questione involge quindi il rapporto dell'assicurazione c.d. claims made (o a denuncia fatta) con la disciplina dell'obbligo di avviso dell'assicurato (artt. 1913-1915 c.c.), senza porre in discussione la validità della deroga all'art. 1917 c.c. reiteratamente affermata della giurisprudenza (CC S.U. 6 maggio 2016 n. 9140; CC S.U. 24 settembre 2018 n. 22437), poiché si controverte solo di un profilo di nullità (art. 1932 c.c.) del suo sottotipo cd. claims made and reported (denuncia fatta e comunicata).
L'ambito temporale di operatività della garanzia e la clausola “claims made”: alcuni problemi irrisolti
L'argomento merita necessariamente un approfondimento sul lungo e travagliato iter che si è succeduto nel tempo in relazione alla validità e meritevolezza dello schema contrattuale di cui si discute.
Nel 2018 le Sezioni Unite sono intervenute a pronunciarsi sul modello assicurativo claims made con un approccio che si discosta da quello dell'ordinanza interlocutoria che le aveva investite. Mentre quest'ultima si era concentrata sulla ricostruzione teorica della struttura della claims made come clausola delimitativa o di rischio, le Sezioni Unite hanno valorizzato il dato positivo, segnando così un cambio di prospettiva. In particolare, esse hanno dato rilievo ad alcuni importanti interventi legislativi: l'articolo 11 della legge Gelli-Bianco (legge 24/2017), il decreto ministeriale del 22 settembre 2016 che disciplina le condizioni minime delle polizze assicurative obbligatorie per gli avvocati, e l'articolo 3, comma 5, lettera e), del decreto legge 138/2011, come modificato dalla legge 124/2017. Tra questi, l'intervento più significativo è certamente quello della legge Gelli-Bianco (specialmente per la presente disamina) che ha introdotto un modello di responsabilità sanitaria basato espressamente sulla formula claims made, individuando in modo chiaro la struttura temporale della garanzia assicurativa.
Da ultimo, l'argomento è stato ripreso dall'art. 5 dei Decreti Attuativi della Legge, che tocca proprio aspetto rilevante della disciplina della nuova assicurazione obbligatoria: quello relativo all'ambito temporale dell'operatività delle polizze stipulate sulla base del modello on claims made basis.
Riporta la previsione che
“1. La garanzia assicurativa è prestata nella forma «claims made», operando per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta nel periodo di vigenza della polizza e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi in tale periodo e nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo. In caso di rinnovo, la garanzia assicurativa opera fin dalla decorrenza della prima polizza. In caso di sinistro di cui all'ultimo periodo dell'articolo 1, comma 1, lettera o), la garanzia assicurativa opera per il sinistro denunciato a partire dalla prima richiesta.
2. In caso di cessazione definitiva per qualsiasi causa dell'attività dell'esercente la professione sanitaria, ivi compreso l'esercente attività libero professionale, è previsto un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi alla cessazione dell'attività e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di efficacia della polizza, incluso il periodo di retroattività della copertura, ai sensi dell'articolo 11, comma 1 della Legge. L'ultrattività è estesa agli eredi e non è assoggettabile alla clausola di disdetta. Tale copertura, per tutta la sua durata, prevede un massimale pari a quello della polizza di assicurazione in corso al momento della cessazione.
3. A parziale deroga dell'articolo 1913 codice civile e fatte salve le norme in materia di prescrizione dei diritti assicurativi di cui all'articolo 2952, commi 2 e 3 del codice civile, in caso di sinistro denunciato ai sensi dei commi 1 e 2, l'assicurato deve darne avviso all'assicuratore entro 30 giorni da quello in cui la richiesta è pervenuta o l'assicurato ne ha avuta conoscenza. Non è necessario l'avviso se l'assicuratore interviene entro il predetto termine alle operazioni di salvataggio o di constatazione del sinistro”.
I prodotti assicurativi offerti dal mercato dovranno quindi essere costruiti secondo tale schema tipico, eletto quale modello di riferimento in ambito medico sanitario (art.1 co. 26 L.124/2017, art. 11 Legge Gelli e art. 5 D.M. 232/2024) e ormai pienamente avallato dalla giurisprudenza di legittimità (con la nota Cass. civ. S.U.22437/2018; principi confermati da ultimo con la pronuncia n. 3123 del 2 febbraio 2024).
L'art. 11 della Legge Gelli fornisce d'altronde alcune previsioni indefettibili delle coperture in ogni caso correlate alla struttura della formula claims made in parte mutuando quanto fissato per le polizze dei liberi professionisti con la Legge 124/2017. È infatti con tale normativa che il Legislatore aveva introdotto dei requisiti minimi inderogabili (tra cui, per esempio, la “postuma decennale”) per garantire l'effettività della copertura nell'interesse dei danneggiati, in primo luogo, e in ogni caso per la tranquillità degli esercenti la professione sanitaria.
L'art. 5 della decretazione attuativa fissa quindi, più nel dettaglio, i requisiti minimi di efficacia temporale che devono essere previsti obbligatoriamente nelle polizze.
Indica nello specifico la necessità di garantire gli esercenti la professione sanitaria, mediante coperture stipulate secondo la formula claims, per tutte le richieste di risarcimento presentate durante il periodo di vigenza della copertura, oltre che in base a finestre di retroattività decennale e di ultrattività (con massimale pari a quello in corso di garanzia) per il caso di “cessazione definitiva per qualsiasi causa dell'attività dell'esercente la professione sanitaria”. Ultrattività che, naturalmente, è previsto si estenda agli eredi e rispetto alla quale è preclusa la disdetta. L'ultimo comma dell'art. 5 poi si occupa di indicare le modalità di denuncia del sinistro da parte dell'assicurato, onerandolo di provvedere in tal senso entro 30 giorni dal pervenimento della richiesta o dalla conoscenza effettiva del claim (salvo intervento dell'assicuratore entro il predetto termine).
Le previsioni regolamentari, tuttavia, non chiariscono in modo definitivo la natura e la portata dell'art. 11 nella parte in cui dà rilievo alla denuncia dell'evento; il lemma “denuncia” ha aperto diversi dubbi interpretativi.
L'inciso era stato infatti letto come meccanica conformazione di protezione per l'assicurato che, seppure non destinatario di un claims durante il periodo di efficacia della copertura, ben avrebbe potuto avere evidenza di un errore o di un fatto potenzialmente produttivo di esposizioni risarcitorie. In queste situazioni (non rare nella prassi) -in mancanza di una esplicita previsione contrattuale- la denuncia dell'accadimento del fatto lesivo può avere effetti deflagranti per l'assicurato. Quest'ultimo potrebbe infatti scontare (a seguito della sua buona fede) una impossibilità di trovare il sostegno della copertura al momento del sinistro (claims) perché la polizza, complice questa informazione, potrebbe non essere rinnovata dall'assicuratore, consapevole della presumibile ricezione di una futura richiesta risarcitoria (o fissando condizioni di premio inaccessibili). Ove, peraltro, l'assicurato stipulasse una nuova polizza, il nuovo assicuratore potrebbe rifiutare la garanzia in caso di sinistro riferito a fatti conosciuti dall'assicurato e da questo taciuti al momento della stipula del contratto.
L'effettività della copertura è quindi un problema evidente, per il controverso funzionamento delle clausole claims made appena descritto. Ne deriva quindi che l'attenzione non ricade più sulla validità del modello in sé, quanto sulla corretta costruzione del prodotto e sulla sua collocazione, potendosi incorrere in censure e ricadute qualora la scelta della copertura non sia confacente alle esigenze e ai bisogni dell'assicurato.
Come evidenziato, uno dei maggiori problemi legati alle coperture assicurative con modello claims made riguarda la possibilità di “ancorare” alla polizza in corso, un dato evento (noto all'assicurato, quale per esempio un errore grave commesso di cui abbia conoscenza, ma che ancora non costituisca “sinistro” in mancanza di richiesta risarcitoria).
Per queste ragioni, inizialmente, qualcuno aveva letto l'art. 11 della L. 24/2017 nella parte in cui dava rilevo all'onere di denuncia del fatto come esplicita inserzione di una deeming clause, ben nota al modello anglosassone.
In base a tale modello, l'assicurato può denunciare cautelativamente tutte le condotte presumibilmente dannose (in inglese to deem significa, appunto, presumere) commesse in vigenza di contratto, anche laddove le stesse non abbiano ancora dato luogo a richieste risarcitorie di terzi: e per effetto di tale denuncia ogni eventuale richiesta di risarcimento successivamente pervenuta sarà ritenuta in garanzia, anche se formalizzata dopo lo spirare della polizza.
Ora — è bene dirlo subito — una tale soluzione non appagherebbe le esigenze oggi reclamate dal mercato assicurativo dal momento che:
1) comporterebbe possibili eccessi cautelativi da parte dell'assicurato;
2) non risolverebbe, del tutto, il problema della “lungolatenza”, cristallizzando (proprio attraverso la denuncia) l'impegno dell'assicuratore per un tempo potenzialmente indefinito, sino al limite della prescrizione del diritto risarcitorio del terzo.
Ebbene, il dubbio che l'art. 11 potesse descrivere una formula del tipo deeming è stato da taluni sollevato facendo leva sul primo periodo della norma, nella parte in cui sembra proprio riferirsi alla denuncia dell'assicurato anziché alla richiesta risarcitoria del terzo (estendendo la copertura agli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo «...purche' denunciati all'impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza »).
Ma è proprio così? No, secondo noi.
Il riferimento alla denuncia lo si trova soltanto, come poc'anzi osservato, nella prima parte della norma, quella dedicata alla retroattività. Manca invece nel secondo periodo, quello che disciplina l'ultrattività della garanzia per i professionisti che cessino la loro attività in vigenza di polizza: qui, al contrario, viene fatto esplicito riferimento alla richiesta risarcitoria del terzo. Nulla viene stabilito, dall'art. 11, a proposito del regime applicabile agli eventi occorsi in corso di polizza, laddove il professionista non cessi, ed anzi prosegua, la propria attività, mantenendo vivo il proprio obbligo di assicurarsi con continuità.
Tre sono, dunque, le sezioni di cui si compone l'arco temporale della garanzia assicurativa descritto dall'art. 11: retroattività, vigenza di polizza, ultrattività in caso di cessazione.
Come detto, l'art. 11 si apre, anzitutto, con la previsione di una retroattività decennale: la copertura assicurativa obbligatoria deve garantire anche le responsabilità (degli assicurati) derivanti da eventi (fatti avvenuti e condotte tenute) prima della stipula della polizza, entro un arco temporale non inferiore a dieci anni. Si deve trattare, naturalmente, di fatti e condotte che non abbiano già dato luogo a formali richieste risarcitorie da parte del danneggiato: in caso contrario, il sinistro si sarebbe già interamente verificato prima del perfezionamento del contratto assicurativo, facendone così venir meno ogni elemento di aleatorietà e, quindi, di assicurabilità. In sostanza, la clausola di retroattività decennale deve riguardare un passato sconosciuto o, almeno, un passato le cui conseguenze risarcitorie rimangono dubbie al momento della stipula della polizza. Affinché gli eventi diano luogo alla copertura assicurativa occorre però che gli stessi siano “denunziati durante la vigenza temporale della polizza”. Il riferimento alla denuncia parrebbe evocare effettivamente lo schema, sopra descritto, della deeming clause, lasciando supporre che la denuncia dell'evento da parte dell'assicurato, anche in assenza di richiesta del terzo, basti di per sé a vincolare l'impresa assicurativa, la quale dovrebbe tener indenne il primo dalle successive pretese risarcitorie del secondo, anche qualora le stesse siano formalizzate in epoca successiva alla scadenza della polizza. Ciò non di meno, proprio perché circoscritta al periodo di retroattività, la formula deeming, se effettivamente ritenuta tale, si atteggerebbe in modo del tutto particolare e non dovrebbe alimentare quelle medesime insidie temute dal mercato assicurativo a proposito della non prevedibilità delle conseguenze risarcitorie di eventi di danno lungolatenti. Ed invero, pare potersi sostenere che la denuncia/segnalazione cautelativa in ordine a fatti verificatisi in passato non possa che esser fatta, in assenza di formali richieste/segnalazioni da parte del danneggiato, al momento stesso della stipula, non essendo verosimile che “dubbi” o “presunzioni” (di aver commesso un evento di danno) inesistenti (per l'assicurato) all'atto della stipula gli sovvengano, come per incanto, in epoca successiva e durante la vigenza del contratto. Il che vuol dire che la compagnia, del tutto correttamente, potrebbe pretendere che la denuncia dell'assicurato, sempre che di deeming clause si tratti, sia coeva (almeno nella larga maggioranza dei casi) al perfezionamento della polizza (con conseguente possibilità di intercettare subito i potenziali sinistri e di tarare il premio anche in funzione degli eventi denunziati in sede di stipula).
Ciò naturalmente, non escluderebbe la copertura di eventi che — avvenuti nel periodo di retroattività e non denunciati dall'assicurato (perché a lui non noti) — divengano invece oggetto di vere e proprie richieste risarcitorie formulate ex novo dal terzo danneggiato durante la vigenza della polizza.
In quest'ottica, rimarrebbero denunciabili successivamente fattispecie del tutto singolari e poco frequenti, come nel caso in cui un dato fatto sia portato in emersione in corso di polizza a fronte della segnalazione di un terzo, pur in assenza di formale richiesta risarcitoria
Insomma, quanto al periodo di retroattività, il lemma “denunciati” (riferito agli eventi in copertura occorsi nel decennio anteriore alla stipula) potrebbe far pensare ad una particolarissima deeming clause, in cui la denuncia sia da riferirsi tanto alla genetica segnalazione di eventi dubbi da parte dell'assicurato quanto alle richieste risarcitorie formulate per la prima da terzi durante la vigenza della polizza. Ma in alternativa, proprio a fronte della particolarità dell'interpretazione sopra propugnata, si potrebbe optare per una diversa soluzione ermeneutica. Si potrebbe, cioè, francamente obliterare il significato della denuncia sino a considerare la formula di legge come una vera e propria clausola claims, in cui con denuncia si dovrà considerare la richiesta del terzo, in coerenza con quello che sarà lo schema più naturale di operatività dei nuovi rapporti assicurativi, tutti incentrati proprio sull'azione diretta del terzo danneggiato. Il che, tra l'altro, potrebbe risultare coerente con quanto stabilito dalla seconda parte della norma, laddove tratta della obbligatoria estensione della garanzia alle “richieste di risarcimento” — e non alle denunce... — presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi alla scadenza della polizza e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi “anche durante il periodo di retroattività”.
Eccoci, dunque, al tema della così detta garanzia postuma, intesa quale allargamento dell'ambito di operatività della copertura ad eventi che, pur avvenuti nella vigenza della polizza (o nel periodo di retroattività), abbiano dato luogo a richieste risarcitorie di terzi soltanto in epoca successiva alla scadenza della garanzia (purché entro il limite di ultrattività contrattualmente previsto). Si tratta di una previsione piuttosto usuale nella corrente prassi di mercato, costituendo (unitamente alla retroattività) una sorta di bilanciamento di favore, per l'assicurato, alla deroga al regime temporale previsto dall'art. 1917 c.c. Può ricordarsi, del resto, come proprio attorno alla perimetrazione complessiva dell'ambito di operatività della garanzia (tenuto conto delle così dette estensioni “pregresse” e “postume”) si debba fondare quel giudizio di meritevolezza predicato dalle Sezioni Unite (sentenza 9140/2016) quale filtro di validità delle clausole claims made. Ed ancora può essere opportuno ribadire come, secondo la stessa Cassazione, il campo delle assicurazioni obbligatorie della responsabilità professionale mal tollererebbe le clausole claims, specie se miste e prive di postuma (trattandosi di coperture a tutela prevalente del terzo danneggiato). Sennonché, pur tenendo conto di tali vigorose indicazioni giurisprudenziali, la legge “Gelli” ha ritenuto di poter coniugare in altro modo le esigenze protettive dell'assicurato, dei pazienti e, dopo tutto, del mercato assicurativo, dimostrando di voler ragionare in ottica di sistema e di maggior respiro.
Così la clausola di estensione postuma non è stata prevista in termini generali ed assoluti ma soltanto nella specifica ipotesi in cui il professionista abbia cessato la sua attività durante la vigenza della polizza.
Si tratta di un regime temporale che le polizze talvolta prevedono, dietro il pagamento di un sovrapprezzo, attraverso l'inserimento nella CGA, o nelle condizioni particolari di contratto, di un'apposita clausola denominata, con slancio quasi poetico, “sunset clause”.
Il fatto che la disposizione si riferisca alla cessazione dell'attività professionale sembra circoscriverne l'ambito di applicazione alle sole garanzie dei singoli esercenti e non delle strutture (per quanto la cessazione dell'attività, sia pur meno frequentemente, possa riguardare anche enti e persone giuri- diche che svolgono attività sanitaria in forma di impresa).
Inoltre, vien da chiedersi se la norma abbia inteso la “cessazione definitiva dell'attività professionale per qualsiasi causa” in senso assoluto o relativo. Nel primo caso dovremmo considerarla come correlata ad un vero e proprio definitivo stato di quiescenza, e quindi al venir meno dell'obbligo assicurativo in capo all'(ex) esercente. Nel secondo, potremmo equiparare la cessazione anche al cambio radicale di attività, ipotesi non frequente ma neppure rarissima, come nell'ipotesi in cui un cardiologo diventi medico di base. Ebbene in tali ipotesi vi è da chiedersi se la modifica del rischio professionale descriva un ambito oggettivo del tutto diverso od un semplice aggravamento/ diminuzione rispetto al rischio geneticamente assunto (astrattamente sussumibili entro l'alveo degli artt. 1897 e 1898 c.c.).
Nel primo caso, la continuità assicurativa (e l'obbligatoria retroattività) non sembrerebbe bastevole a “riprendere” eventi verificatisi in epoca anteriore alla stipula di ciascuna polizza, trattandosi di sinistri non ricomprendibili nel relativo ambito oggettivo. Nel secondo caso, il meccanismo di cui agli artt. 1897 e 1898 c.c. opererebbe già in costanza di garanzia, consentendo di dar corso a quel meccanismo di continuità di copertura che la legge, attraverso la previsione dell'obbligo assicurativo, intende preservare; fermo restando che, in ipotesi, la nuova polizza dovrebbe considerare, ai fini della quotazione, l'effettiva misura del diverso rischio professionale correlato ai rischi pregressi (mentre l'eventuale recesso previsto dagli artt. 1897 e 1898 c.c. integrerebbe probabilmente un'eccezione non opponibile al terzo).
La sunset clause voluta dalla legge 24/2017 è, dunque, strettamente e chiaramente correlata non alla denuncia di sinistro dell'assicurato ma alla richiesta risarcitoria del terzo. Il fatto che il legislatore non abbia esteso la postuma a tutti i contratti (come auspicato nei più recenti orientamenti giurisprudenziali), limitandola ai casi di cessazione dell'attività del professionista, trova giustificazione all'interno del più ampio disegno sistematico che la novella ha voluto tracciare: l'obbligo assicurativo in capo a strutture e professionisti dovrebbe, naturalmente, offrire al paziente sufficienti rassicurazioni in ordine ad una continuità di garanzia presidiata, a sua volta, dalla regola dell'obbligatoria retroattività decennale di ciascuna nuova polizza. In questo senso, la tutela del “cliente” di cui all'art. 3 comma 5 lettera e) del d.l. 138/2011 trova comunque realizzazione, senza dover per forza ricorrere a soluzioni oltranziste (quali l'applicazione dell'ordinario regime temporale previsto dall'art. 1917 c.c.) che rischierebbero di mettere a repentaglio la tenuta in concreto dello “scudo” assicurativo. Già, perché — e qui si chiude il cerchio — l'art. 11 non casualmente tratta solo della “retroattività e della sunset clause, senza (apparentemente) occuparsi del regime “mediano”, ossia della sorte dei sinistri che si verificano durante il vigore della polizza nell'ambito di attività professionali che non siano, nel mentre, cessate. Dobbiamo forse concludere che per quei sinistri valga la previsione di legge, e dunque il così detto regime act committed di cui all'art. 1917 c.c.? Anche in questo caso la risposta deve esser data in termini negativi. È proprio la particolare previsione della sunset clause a chiarire, sia pur indirettamente, che, al di fuori delle ipotesi di cessazione dell'attività professionale, il regime di operatività temporale della polizza non può che essere quello di una claims made classica, con estensione retroattiva e nessuna postuma. Ciò, in quanto se il regime della polizza fosse quello di una loss occurrence o di una claims made, non vi sarebbe stato alcun bisogno di prevedere una sunset clause, dal momento che tutti i sinistri causati nella vigenza della polizza dal medico cessato sarebbero stati naturalmente ricompresi in garanzia, giusta l'applicazione dell'art. 1917 c.c..
Ma vi è un'altra considerazione che merita di esser svolta. I regimi della loss occurence o dell'act committed (meglio, la formula dell'art. 1917 c.c.) stridono ove posto in correlazione all'impostazione generale del nuovo sistema assicurativo: un sistema caratterizzato in modo sensibile dall'azione diretta, ossia dal diritto attribuito al danneggiato di svolgere le proprie pretese direttamente all'impresa assicuratrice del responsabile. Questa facilitazione (sostanziale e non solo procedurale) costituisce, di per sé, straordinaria garanzia di tutela per il paziente, consentendogli di rivolgersi alla “tasca capiente” assicurativa, senza dover passare per il tramite dell'assicurato e della sua denuncia di sinistro (o successiva chiamata in causa, ex art. 1917 c.c.).
Il meccanismo codicistico di partenza, invece, esclude (salvo casi particolari) questo rapporto diretto tra danneggiato e impresa assicurativa, fondandosi invece su di una triangolazione relazionale in cui la denuncia di sinistro (e la comunicazione all'assicuratore della richiesta risarcitoria del terzo) valgono, da un lato, a consentire di attivare la garanzia (ex art. 1913c.c.) e, dall'altro, a sospendere il decorso prescrizionale della diritto alla manleva (che è altro e diverso rispetto al diritto risarcitorio che il terzo danneggiato può, nel sistema della legge Gelli, azionare direttamente nei confronti dell'impresa assicurativa).
Insomma, il contesto in cui la norma si cala è del tutto diverso e peculiare rispetto a quello stabilito dall'art. 1917 c.c.
Di più: l'azione diretta, per poter essere utilmente sfruttata, deve esser esercitata dal terzo danneggiato in modo lineare e senza intoppi, avendo la possibilità di individuare agevolmente la copertura assicurativa (e l'impresa) alla quale rivolgere la domanda. In questo senso, esattamente come accadeva un tempo con il contrassegno nella rc auto, il danneggiato deve esser posto in condizione di individuare subito la polizza che copre, al momento della richiesta risarcitoria, la struttura o il medico. Ed a tal fine soccorrono le previsioni dell'art. 10 comma 4 e 10 comma 7, che introducono veri e propri obblighi di pubblicità, a carico degli assicurati e dell'Osservatorio, delle polizze tempo per tempo vigenti. Ora, se il terzo danneggiato dovesse ogni volta sforzarsi di reperire gli estremi (e prima ancora, individuare) la polizza in vigore al tempo della causazione di un dato danno (magari emerso a distanza di anni dall'evento che ne ha dato origine), ebbene, il sistema assicurativo “diretto” rischierebbe di esserne compromesso, sino ad esporre il danneggiato medesimo ad eccezioni di carenza di legittimazione passiva antinomiche rispetto all'agilità risarcitoria che il sistema medesimo vorrebbe invece presidiare. Assai più logico, invece, ritenere che il danneggiato possa rivolgersi all'impresa assicurativa che, prestando la copertura al momento della richiesta, garantisce anche gli eventi occorsi durante il periodo di retroattività. Ecco dunque che l'azione diretta — sulla quale il nuovo sistema assicurativo si appoggia — sembra presupporre che sia proprio la richiesta del terzo (specie se effettuata ai sensi e per gli effetti dell'art 12) a determinare l'ambito di operatività della garanzia, nel senso che la stessa vale per le richieste pervenute in costanza di polizza (della polizza resa pubblica ex artt. 10 comma 4 e 10 comma 7...) a prescindere dal fatto che l'evento si sia verificato durante la vigenza della garanzia o in epoca precedente. E così vale a seguire, per tutte le polizze successivamente stipulate, in regime di obbligatoria continuità.
Ciò, lo si ripete, non tradisce affatto le aspettative di tutela del terzo danneggiato, che vengono presidiate, a livello di sistema, proprio da tale previsione dell'obbligo di copertura in continuità del rischio clinico.
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Sommario
Il primo quesito: rapporti interni tra condebitori titolari dell'obbligazione risarcitoria nei confronti del paziente
Il secondo quesito: rapporti interni tra condebitori titolari dell'obbligazione risarcitoria nei confronti del paziente
L'ambito temporale di operatività della garanzia e la clausola “claims made”: alcuni problemi irrisolti