Deve qui necessariamente premettersi che il Patto di famiglia è un istituto introdotto per la prima volta con la Legge 14 febbraio 2006, n. 55. Il suo carattere innovativo rispetto alle previgenti norme di disciplina della determinazione del reddito di impresa, non disgiunto da una formulazione normativa che non ha mancato di generare incertezze già nella dottrina civilistica, non poteva non avere ripercussioni in materia tributaria.
A tale proposito, si è già riferito che l'Amministrazione finanziaria e parte della dottrina ritengono di dover considerare il valore netto dell'azienda ricevuta dal beneficiario/soggetto imprenditore e da questi utilizzata nell'esercizio di impresa come un componente positivo del reddito di impresa.
Ai sensi dell'art. 88, c. 3, lett. b), del TUIR, infatti:
“3. Sono inoltre considerati sopravvenienze attive:
(…)
b) i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità, esclusi i contributi di cui alle lettere g) e h) del comma 1 dell'art. 85 e quelli per l'acquisto di beni ammortizzabili indipendentemente dal tipo di finanziamento adottato”.
Orbene, ai fini della sua attrazione nel reddito di impresa del beneficiario, soggetto imprenditore, ci si chiede se il Patto di famiglia abbia una effettiva natura di “atto di liberalità” del disponente.
Invero, come è stato osservato di recente, l'assoggettamento al reddito di impresa del beneficiario del Patto di famiglia si basa sul sovrapponimento delle categorie della liberalità e dell'atto gratuito. Se, infatti, le due categorie non fossero sovrapponibili ne conseguirebbe che, anche nel caso in cui l'assegnatario fosse un imprenditore, il trasferimento dell'azienda non potrebbe essere qualificato come sopravvenienza attiva, con conseguente inoperatività dell'art. 88 che, difatti, tratta delle liberalità e non degli atti a titolo gratuito (cfr. S. CARUNCHIO, Patto di famiglia: l'inquadramento tributario e civilistico, Fondazione Nazionale dei Commercialisti, Roma, 31 ottobre 2016).
A tale proposito, deve subito evidenziarsi che soffermandosi sul significato del termine “liberalità” riportato nell'art. 88 citato, autorevole dottrina ha ritenuto che esso sia idoneo ad abbracciare tutti gli arricchimenti patrimoniali dell'imprenditore diversi da quelli che trovino titolo nell'erogazione di contributi e che non siano bilanciati da un corrispondente peso economico in capo al beneficiario, a nulla rilevando la differenza, meramente civilistica, tra atti di liberalità e di gratuità (G. FALSITTA, “Ulteriori precisazioni e proposte sulla "questione fiscale" delle procedure concorsuali”, in “La tassazione delle plusvalenze e sopravvenienze nelle imposte sui redditi”, Padova, 1986; M. BEGHIN, “I contributi e le liberalità a favore delle imprese”, Milano, 1997).
Sennonché, deve pure evidenziarsi che, in via generale, la prassi interpretativa del diritto tributario ritiene che laddove un termine abbia un significato comune diverso da quello tecnico, il legislatore lo assuma nel suo significato tecnico. Per altrettanto autorevole dottrina, consegue che quando la norma tributaria rinvia a termini appartenenti ad istituti di altri settori dell'ordinamento, il termine utilizzato assume il significato di quello attribuito nel settore di appartenenza (F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Utet, 2006).
Ciò posto in termini di premessa, deve rilevarsi che in tema di reddito di impresa non esiste né una definizione di “atto di liberalità” né una definizione di Patto di famiglia, sicché, qualora si optasse per la generale prassi interpretativa del diritto tributario, ai fini dell'inquadramento della disciplina del Patto di famiglia occorrerebbe rifarsi alla disciplina civilistica di provenienza.
Sotto quest'ultimo profilo, non pochi dubbi potrebbero avanzarsi riguardo all'assunto secondo cui l'azienda ricevuta dal beneficiario costituisce un componente positivo del reddito di impresa a causa della natura di “liberalità” del Patto di famiglia.
In primo luogo a favore della diversa tesi della natura non liberale, stricto sensu, dell'istituto in esame militerebbe il dato normativo della disciplina civilistica, la cui norma di riferimento è inserita nel Titolo IV del Libro Secondo del codice civile, quindi tra le norme relative alla “divisione”, e non nel Titolo V disciplinante la “donazione”.
Inoltre, a differenza dell'art. 769 c.c., laddove è previsto che “La donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un'obbligazione”, nell'art. 768-bis c.c., riguardo al Patto di famiglia, non è riportato il riferimento esplicito allo “spirito di liberalità”.
Deve ritenersi che la ragione di una tale differenziazione sia da ricondurre a quella di esplicitare la sostanziale differenza tra i due istituti che si fondano su principi diversi: la donazione, infatti, è caratterizzata, oltre che dall'incremento del patrimonio altrui, dalla presenza nel soggetto donante dell'elemento soggettivo dello spirito di liberalità con depauperamento del patrimonio personale (cfr. Trib. Grosseto, 25 marzo 2015, n. 300), mentre, viceversa, il Patto di famiglia ha la precipua e diversa funzione di “fornire all'imprenditore uno strumento giuridico per salvaguardare la continuità nella gestione dell'impresa, preservando l'integrità e la funzionalità dell'azienda” (Trib. Reggio Emilia, 19 luglio 2012).
Nel caso di stipula di un Patto di famiglia, quindi, in capo al disponente più che lo spirito di liberalità rileverebbe lo spirito imprenditoriale, che lo porterebbe ad adottare un atto riconducibile all'esercizio di impresa, ovverosia scegliere uno o più eredi ritenuti dotati delle necessarie capacità imprenditoriali utili per proseguire l'attività di impresa, assicurandone continuità economica, produttività e salvaguardia di occupazioni lavorative.
Sotto tale profilo, da un lato deve osservarsi che se in ambito civilistico per potersi avere una liberalità e non un mero atto a titolo gratuito è necessario che una delle parti sia mossa dall'elemento psicologico di “arricchire” o “effettuare un'attribuzione senza corrispettivo” (cfr. G. VECCHIO, Le liberalità atipiche, Torino, 2000), dall'altro lato, tale elemento mancherebbe nel Patto di famiglia laddove, come visto, il disponente parrebbe mosso da scelte di tipo imprenditoriale più che dalla volontà di arricchire il beneficiario della disposizione (cfr. M.C. ANDRINI, Il patto di famiglia, Milano).
Sul punto, è altresì utile rilevare che anche per la giurisprudenza di legittimità “contrariamente a quanto pure si è ipotizzato in passato (Cass. civ., sez. 1^, 20 novembre 1992, n. 12401), la giurisprudenza più recente ha ben chiarito che occorre distinguere non solo tra negozio a titolo gratuito e negozio a titolo oneroso, ma anche tra gratuità e liberalità“ (Cass. civ., 5 dicembre 1998, n. 12325).
Inoltre, sempre per i Massimi Giudici “In particolare l'assenza di corrispettivo, se è sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (così distinguendoli da quelli a titolo oneroso), non basta invece a individuare i caratteri della donazione, per la cui sussistenza sono necessari, oltre all'incremento del patrimonio altrui, la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità) consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, e di un elemento di carattere obbiettivo, dato dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o ha assunto l'obbligazione” (Cass. civ., 12 marzo 2008, n. 6739; Cass. civ. 24 giugno 2015, n. 13087).
Alla luce di ciò e per concludere per quanto qui rileva, “Si può dunque avere un negozio che, benché gratuito, non è manifestazione di liberalità” (Cass. civ., 4 novembre 2015, n. 22567, cfr. anche Cass. civ., 24 giugno 2015, n. 13087).
Ferma quest'ultima premessa e proseguendo nell'analisi, sempre con riferimento alla natura non liberale del Patto di famiglia e quindi della sua possibile esclusione dal novero delle sopravvenienze tassabili ai sensi dell'art. 88, TUIR, deve annotarsi che la stessa Agenzia delle Entrate, con due distinte circolari, seppure sul punto identiche e riferite alle imposte indirette (Circolare n. 3/E/2008, richiamata da Circolare 18/E/2013) ha prima precisato che la finalità del patto di famiglia riposa “nell'intento di regolamentare il passaggio generazionale delle aziende mediante effetti anticipatori della successione” e, dopo, che esso seppure riconducibile nell'ambito degli atti a titolo gratuito resta “caratterizzato dall'intento – non prettamente donativo – di prevenire liti ereditarie e lo smembramento di aziende o partecipazioni societarie ovvero l'assegnazione di tali beni a soggetti inidonei ad assicurare la continuità gestionale degli stessi”.
Alla luce di tali documenti di prassi, quindi, può affermarsi che, seppure pacificamente rientrante nella categoria degli atti a titolo gratuito, in tema di liberalità dell'atto, anche per l'Agenzia delle Entrate il Patto di famiglia non si caratterizza per la presenza di un animus donandi da parte del soggetto disponente, quanto piuttosto, come visto, per la volontà di regolamentare in vita il passaggio generazionale dell'azienda, prevenire liti ereditarie ed evitare lo smembramento dell'azienda assegnandola ad un soggetto familiare capace di assicurare la prosecuzione dell'attività e di garantire, se non rinunciata, la liquidazione della quota di legittima spettante agli altri soggetti partecipanti al contratto.
Infatti, ai sensi dell'art. 768-quater, commi 1 e 2, c.c.: “Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore.
Gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura”.
Si ponga mente, a tale proposito, all'ipotesi di un'azienda del disponente fortemente patrimonializzata ed al conseguente onere dell'imprenditore beneficiario di procedere alla liquidazione in denaro della quota del coniuge e degli altri legittimari con una provvista finanziaria della propria azienda, in seno alla quale, per l'effetto, si verrebbe a determinare una situazione di minore liquidità e possibili conseguenze sul piano economico in termini di interessi.
Tale ultima previsione normativa porterebbe, quindi, ad escludere la natura di liberalità del Patto di famiglia (cfr. S. CARUNCHIO, Patto di famiglia: l'inquadramento tributario e civilistico, cit.).
Alla luce di tutto quanto sin qui riportato potrebbe affermarsi, in conclusione, che l'insieme degli scopi sottesi al Patto di famiglia non pare ricondurre la fattispecie all'atto di mera liberalità per la semplice volontà del soggetto disponente di voler semplicemente donare all'esclusivo e disinteressato scopo di arricchire una terza persona, quanto piuttosto al diverso, e più complesso, scopo di favorire la continuità aziendale. Ciò posto, potrebbe quindi ritenersi che l'atto di mera liberalità indicato dall'art. 88, TUIR, quale presupposto per l'attrazione del componente positivo del reddito di impresa, non possa comprendere il Patto di famiglia, con la conseguenza che nei confronti di quest'ultimo resterebbero neutralizzati, sia per il disponente sia per il beneficiario imprenditore, i plusvalori dell'azienda oggetto del Patto stesso sino al momento del successivo ed eventuale trasferimento dell'azienda da parte dell'assegnatario.