Concordato misto e disciplina applicabile
12 Agosto 2020
Quale criterio va adoperato per individuare la disciplina applicabile al concordato misto?
Caso concreto - La società debitrice deposita una proposta concordataria che prevede la soddisfazione dei creditori mediante l'esecuzione di un concordato misto in continuità aziendale indiretta ai sensi degli artt. 160, comma 1, lett. a), 186 bis e 182 ter L.F. Per far fronte alla propria esposizione debitoria la società indica di procurarsi le risorse necessarie da:
Dai numeri prospettati risulta che il fabbisogno necessario derivi principalmente:
Il concordato viene qualificato come misto in continuità indiretta, ma si pone il problema della disciplina applicabile: quella del concordato liquidatorio o quella del concordato in continuità. Nel valutare la disciplina applicabile al caso sottoposto all'attenzione dei giudici, il Tribunale ha, dapprima, esaminato l'attuale legge fallimentare e i relativi dubbi applicativi sul punto, per passare, successivamente, all'analisi delle nuove regole contenute nel codice della crisi e, infine, si è pronunciato in linea con queste ultime. Il R.D. n. 267/1942 non fornisce i criteri per individuare quando un concordato misto sia in prevalenza liquidatorio o in continuità e, conseguentemente, stabilirne la disciplina applicabile, in particolare, con riguardo al pagamento dei creditori chirografari (art. 160, comma 4, L.F.), all'esigenza dell'attestazione "rafforzata" (art. 186 bis, comma 2, L.F.) o alla nomina del liquidatore (art. 182 L.F..). A fronte dell'assenza di indicazioni da parte del Legislatore, che, come noto, si limita a stabilire che nel concordato in continuità è possibile prevedere la liquidazione dei beni non funzionali all'esercizio dell'impresa, i giudici milanesi hanno registrato due orientamenti contrapposti. Secondo una prima impostazione, avallata dalla maggior parte della giurisprudenza e accolta, sembrerebbe prima facie, dal nuovo Codice della Crisi, la prevalenza si deve intendere “in termini quantitativi” ed occorre fare riferimento al “momento del soddisfacimento dei creditori”. Ciò comporta che per stabilire se il concordato sia prevalentemente in continuità o liquidatorio è necessario considerare se le risorse destinate al soddisfacimento dei creditori derivino principalmente dalla liquidazione o dalla prosecuzione dell'attività aziendale. Ad avviso della seconda impostazione, invece, la prevalenza va interpretata in senso “qualitativo o funzionale” e, pertanto, si applica la disciplina del concordato in continuità laddove l'azienda sia “vitale” a prescindere dalle modalità di soddisfacimento dei creditori. A fronte delle incertezze derivanti dal disposto della legge fallimentare, il Legislatore della riforma ha tentato di fare chiarezza mediante la previsione di cui all'art. 84, comma 3, CCI. La norma richiamata afferma che nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta. È inserita, poi, una presunzione iuris et de iure secondo la quale la prevalenza della continuità aziendale si considera “sempre sussistente” quando i ricavi attesi dalla continuità, per i primi due anni di attuazione del piano, derivano da un'attività d'impresa alla quale sono impiegati tanti addetti pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti al deposito del ricorso. È previsto, infine, che a ciascun creditore deve essere necessariamente assicurata un'utilità specificamente individuata e valutabile, che può anche essere rappresentata dalla rinnovazione o prosecuzione di rapporti contrattuali.
Soluzione - Dall'esame delle disposizioni richiamate, il Tribunale di Milano ha concluso che il nuovo Codice della Crisi adotta “un criterio di prevalenza che potrebbe definirsi «quantitativa attenuata» che se concentra, da una parte, il proprio orizzonte sulle modalità di creazione delle risorse da destinare ai creditori (liquidazione o ricavi della continuità) dovendo sempre «i ricavi attesi» essere superiori ai valori della liquidazione, dall'altra parte, amplia l'area semantica del «ricavato prodotto dalla continuità», facendovi rientrare il magazzino, nonché i rapporti contrattuali già in essere o già risolti nel passato, ma che proseguiranno o verranno rinnovati e, infine, i rapporti di lavoro”. Nel caso di specie, i ricorrenti, così come attestato dal professionista indipendente, hanno affermato che i ricavi attesi dalla continuità derivano da un'attività d'impresa alla quale “partecipano” 121 dipendenti, numero superiore alla metà della media di quelli in forza nei due esercizi precedenti il deposito del ricorso (pari a 106). Pertanto, la fattispecie, se esso fosse già stato vigente, sarebbe ricaduta nell'ambito applicativo dell'art. 84 c. 3 CCI, sopra analizzato. I giudici meneghini, avallando la tesi di parte ricorrente ed anticipando l'impostazione del Codice della Crisi, hanno così ritenuto ammissibile la domanda presentata e hanno qualificato il concordato come concordato in continuità indiretta. In conclusione, una interpretazione evolutiva della disciplina vigente, compiuta alla luce del Codice della Crisi, consente di superare i dubbi interpretativi posti dalla laconicità della normativa attuale e di attribuire natura di concordato in continuità a quello che, altrimenti, si sarebbe giudicato essere un concordato liquidatorio.
Normativa e giurisprudenza
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