Ripristinata la messa alla prova per i fatti di spaccio di lieve entità
07 Luglio 2025
Massima È costituzionalmente illegittimo l'art. 168-bis, comma 1, c.p., nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato previsto dall'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Il caso L'imputato, arrestato in flagranza per fatti di spaccio di lieve entità (detenzione a fini di cessione di 51 grammi di hashish), formulava nel corso dell'udienza predibattimentale richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, ai sensi dell'art. 168-bis c.p. e art. 464-bis c.p.p., depositando, a tal fine, la documentazione richiesta dall'art. 141-ter disp. att. c.p.p. Il Tribunale di Padova sollevava questione di legittimità costituzionale, alla luce dei parametri di cui agli articoli: * 3 Cost.: per espressa previsione legislativa, tra i reati che consentono l'accesso all'istituto in questione vi è quello di cui all'art. 82, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (istigazione all'uso illecito di sostanze stupefacenti), che offende il medesimo bene giuridico della salute pubblica tutelato dalla norma incriminatrice dello spaccio di lieve entità, sanzionando, tuttavia, la condotta incriminata con una pena edittale detentiva maggiore sia nel minimo che nel massimo rispetto a quella prevista per il fatto di lieve entità; l'esclusione della messa alla prova per i fatti di spaccio di lieve entità introdurrebbe, dunque, una irragionevole disparità di trattamento; * 27 Cost.: l'estromissione dei fatti di piccolo spaccio dall'ambito applicativo della messa alla prova contrasterebbe con il finalismo rieducativo della pena, non permettendo a chi è nelle condizioni di accedere all'istituto di riparare alla propria condotta, attraverso un programma appositamente elaborato di concerto con l'U.E.P.E., comprensivo dello svolgimento di lavori di pubblica utilità. Identica questione, pur se non in termini perfettamente sovrapponibili, veniva sollevata dal Tribunale di Bolzano, nel corso dell'udienza predibattimentale a carico di un imputato tratto a giudizio per la detenzione a fini di spaccio di circa 15 grammi di cocaina e 10 grammi di hashish. La Corte costituzionale ha accolto la questione, ravvisando «una similitudine di disvalore tra le due fattispecie poste a raffronto, attestata appunto dall'identità dei beni giuridici e dall'anticipazione della loro tutela penale; similitudine che rende priva di giustificazione la diversa disciplina per esse prevista con riferimento alla messa alla prova, soprattutto in considerazione della natura e delle finalità di detto istituto». La questione Introdotto nell'ordinamento nel 1990 quale circostanza attenuante ad effetto speciale - quasi come un “diversivo” resosi necessario per compensare la fragilità di un sistema non sempre capace di distinguere il lecito dall'illecito, come una valvola di sfogo indispensabile per riequilibrare una risposta sanzionatoria da sempre improntata a criteri di massima severità - il fatto di lieve entità, previsto dall'art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, è stato trasformato in ipotesi autonoma di reato dal d.l. 24 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10: tanto è confermato non solo dalla dichiarata intentio legis, ma anche dalla clausola di riserva con la quale si apre la disposizione (che, facendo ora riferimento ad un «più grave reato», presuppone che il fatto di cui al quinto comma sia esso stesso un reato), dalla tecnica di formulazione della fattispecie (che, prevedendo ora un soggetto attivo ed una condotta - “chiunque commette ..” - mutua il lessico proprio delle disposizioni autonomamente incriminatrici), dalla sostituzione della parola «circostanza» con la parola «delitto» in plurime disposizioni codicistiche che richiamano l'art. 73, comma 5, del Testo Unico. La nuova formulazione del quinto comma ha, dunque, sottratto la particolare categoria dei fatti di lieve entità dal campo di applicazione del primo e del quarto comma del suddetto art. 73, creando una nuova ed autonoma ipotesi di reato che, tuttavia, presenta identico bene giuridico tutelato, identico oggetto materiale, identico soggetto attivo, identica condotta ed identico elemento soggettivo della fattispecie ordinaria, dalla quale si distingue solo per elementi secondari ed accidentali, che, per l'appunto, stanno intorno al reato, ma non ne definiscono la struttura: sicché è solo il maquillage di carattere meramente formale apportato con il descritto intervento legislativo, e non la (immutata) struttura del fatto descritto dalla norma, che consente di ritenere non più applicabili i principi - per vero apparentemente ancora attuali - già affermati dalla giurisprudenza di legittimità, che qualificava quella in esame come circostanza, e non come fattispecie autonoma di reato, «essendo correlata ad elementi (i mezzi, la modalità, le circostanze dell'azione, la qualità e quantità delle sostanze) che non mutano, nell'obiettività giuridica e nella struttura, le fattispecie previste dai primi commi dell'articolo, ma attribuiscono ad esse una minore valenza offensiva» (Cass. pen., sez. un., 24 giugno 2010, n. 35737). Un emendamento approvato in sede di conversione del cd. decreto legge “Caivano” (d.l. 15 settembre 2023, n. 123, convertito con modificazioni dalla legge 13 novembre 2023, n. 159) ha aggiunto un secondo periodo alla norma incriminatrice in esame, introducendo la circostanza aggravante della non occasionalità della condotta («Chiunque commette uno dei fatti previsti dal primo periodo è punito con la pena della reclusione da diciotto mesi a cinque anni e della multa da euro 2.500 a euro 10.329, quando la condotta assume caratteri di non occasionalità»), e – ciò che in questa sede rileva - ha innalzato di un anno la pena massima per i fatti di lieve entità (sicché il delta punitivo è oggi quello della da reclusione sei mesi a cinque anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329), che, in relazione al delitto in commento, non può più essere chiesta la sospensione del procedimento con messa alla prova, riservata, ai sensi dell'art. 168-bis c.p. ai «reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria», ovvero ai reati di cui all'art. 550, comma 2, c.p.p. Le soluzioni giuridiche La Corte costituzionale ha innanzitutto condiviso la ricostruzione del quadro normativo operata dal giudice remittente: il piccolo spaccio è oggi punito pena massima di cinque anni di reclusione, oltre alla multa, «ossia con un massimo edittale superiore a quello entro cui il primo comma dell'art. 168-bis c.p. ammette la messa alla prova»: inoltre, «lo spaccio di lieve entità non è ricompreso nell'elenco dei reati di cui al comma 2 dell'art. 550 c.p.p., per i quali il pubblico ministero esercita l'azione penale con la citazione diretta a giudizio, disposizione alla quale l'art. 168-bis, comma 1, c.p. rinvia per ampliare le ipotesi in cui è ammessa la sospensione del procedimento con messa alla prova»; dunque, «alla luce del vigente quadro normativo ... la messa alla prova non è ammissibile per il reato di piccolo spaccio». Ciò posto, il Giudice delle leggi ha ritenuto sussistente il denunciato vulnus agli indicati parametri costituzionali: premesso che «il raffronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la non manifesta irragionevolezza delle scelte legislative .., deve avere a oggetto casistiche omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione», la Corte ha rilevato che nel caso di specie le fattispecie segnalate dal giudice remittente «attengono alla medesima materia e sono sostanzialmente omogenee sotto il profilo dell'oggettività giuridica», trattandosi di reati di pericolo astratto, ispirati dalla medesima ratio «di combattere il mercato della droga, espellendolo dal circuito nazionale». Appare, allora, irragionevole aver consentito solo alla fattispecie sanzionata con la pena edittale più alta, e, dunque, al delitto che tra i due deve senz'altro ritenersi più grave, l'accesso all'istituto della messa alla prova, escludendolo invece per i fatti di lieve entità, che, peraltro, il legislatore ha sottratto alle più severe cornici edittali previste dal primo e dal quarto comma della norma incriminatrice proprio al fine di mitigare il sistema repressivo dei reati in materia di stupefacenti, in presenza di condotte che realizzano un'offesa attenuata all'interesse protetto e sono «espressione di criminalità minore»: «pur nella diversità sul piano della tipizzazione delle condotte – di induzione dei destinatari delle esortazioni al consumo di stupefacenti, da un lato, e di produzione, traffico e detenzione a fini di spaccio, ancorché di lieve entità, dall'altro – è comunque riscontrabile una similitudine di disvalore tra le due fattispecie poste a raffronto, attestata appunto dall'identità dei beni giuridici e dall'anticipazione della loro tutela penale; similitudine che rende priva di giustificazione la diversa disciplina per esse prevista con riferimento alla messa alla prova, soprattutto in considerazione della natura e delle finalità di detto istituto», che, come la stessa Corte ha avuto modo di notare (sentenza n. 91 del 2018), persegue - in relazione a reati di moderata gravità - «scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto», disegnando un percorso rieducativo e riparativo, alternativo al processo ed alla pena, che conduce, in caso di esito positivo, all'estinzione del reato. Dunque, conclude la Corte, «l'esclusione del reato di piccolo spaccio dal perimetro applicativo della messa alla prova – che è derivata dall'innalzamento del massimo edittale da quattro a cinque anni di reclusione realizzato dal “decreto Caivano” – ha determinato un'anomalia, ribaltando la scala di gravità tra le due figure criminose in comparazione, entrambe attinenti alla materia degli stupefacenti e preposte alla tutela dei medesimi beni giuridici, di cui incriminano la mera esposizione a pericolo. L'ipotesi meno grave è soggetta a un trattamento più rigoroso, sul versante considerato, ossia l'ammissibilità alla messa alla prova, con conseguente violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.». Sussiste, peraltro, la violazione dell'altro parametro costituzionale invocato dal giudice remittente, poiché, stante la particolare natura e la limitata offensività del reato di spaccio di lieve entità, «la messa alla prova ben si presta al conseguimento dello scopo – costituzionalmente imposto dall'art. 27, comma 3, Cost. – della risocializzazione del soggetto». La questione di legittimità costituzionale è stata, dunque, accolta, pur se non con le conseguenze invocate dai giudici remittenti, ad avviso dei quali doveva adottarsi una pronuncia additiva destinata ad incidere sull'art. 550, comma 2, c.p.p. Rileva, in proposito, la Corte che «l'accoglimento delle questioni così come formulate dai rimettenti produrrebbe effetti eccedenti il vulnus denunciato; in particolare, renderebbe applicabile alla fattispecie criminosa in questione l'intera disciplina processuale del rito semplificato della citazione diretta a giudizio, in luogo del solo istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova. Il petitum è, quindi, eccedente rispetto alla reale portata delle questioni sollevate dalle ordinanze di rimessione». Dunque, «l'intervento che consente di rimuovere il denunciato vulnus costituzionale consiste in una pronuncia additiva di questa Corte, che inserisca il riferimento al reato di spaccio di lieve entità nella norma che prevede, in via generale, i limiti di applicabilità dell'istituto della messa alla prova (l'art. 168-bis, comma 1, c.p.), a cui va, pertanto, limitato l'oggetto delle questioni sollevate» Osservazioni Il c.d. “decreto Caivano” rappresenta l'ultima tappa di un percorso sincopato che oramai da decenni sottopone la disciplina penale degli stupefacenti a vigorosi smottamenti: si tratta di materia inevitabilmente impregnata di una carica ideologica talmente forte che, guardando al succedersi degli interventi normativi, se ne ricava l'immagine di un assetto tutt'altro che stabile, esposto a ripensamenti continui, sempre fluttuante tra istanze repressive perseguite con estremo rigore e timide pulsioni antiproibizioniste; un sistema nel quale la disordinata stratificazione di atti normativi, esiti referendari e declaratorie di illegittimità costituzionale, venutisi a sovrapporre in maniera spesso distonica, ha finito per comporre un quadro in più punti confuso e contraddittorio. Guardando al fatto lieve, si può rilevare che l'originaria cornice edittale (da uno a sei anni di reclusione, oltre alla multa) era stata significativamente ridotta prima dal d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10 (da uno a cinque anni di reclusione, oltre alla multa), e poi dal d.l. 20 marzo 2014 n. 36, convertito con modificazioni dalla legge 16 maggio 2014, n. 79 (da sei mesi a quattro anni di reclusione, oltre alla multa). Occorre sinteticamente ricordare che il primo intervento normativo, introdotto per adempiere all'obbligo - prescritto dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nella nota sentenza Torreggiani dell'8 gennaio 2013 - di adottare incisive riforme in relazione alle condizioni di vita dei detenuti entro il termine ultimo del 28 maggio 2014, era stato ispirato dalla dichiarata finalità di ridurre la presenza nella popolazione carceraria dei soggetti tossicodipendenti, assai spesso detenuti a seguito della commissione di fatti di contenuta gravità aventi ad oggetto sostanze stupefacenti, di regola inquadrabili nello schema dell'art. 73, comma 5, del Testo Unico. Il decreto legge n. 36 del 2014, frettolosamente adottato al fine di rimodellare l'impianto normativo sconquassato dall'intervento demolitorio della Corte costituzionale con la nota sentenza n. 32 del 2014, aveva ulteriormente ridotto la sanzione, riportandola ai livelli che erano stati previsti dalla legge Jervolino/Vassalli per i fatti di lieve entità relativi alle sole droghe “leggere”. L'ulteriore abbattimento della pena aveva comportato rilevantissimi conseguenze di carattere processuale: in tema di esercizio dell'azione penale (da esercitarsi con decreto di citazione a giudizio), in materia cautelare (pur essendo rimasta invariata la possibilità di procedere ad arresto facoltativo in flagranza, veniva preclusa - ex art. 280, comma 2, c.p.p. - la possibilità di irrogare la misura della custodia cautelare in carcere, salvo il caso in cui il soggetto, già ristretto agli arresti domiciliari per il delitto in questione, avesse trasgredito alle prescrizioni inerenti alla misura cautelare), in materia di esecuzione della pena (in conseguenza dell'inapplicabilità della misura cautelare della custodia in carcere, il soggetto condannato con sentenza irrevocabile per il delitto di cui all'art. 73, comma 5, del testo Unico a pena inferiore ai 4 anni poteva sempre chiedere la sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva ex art. 656, comma 5, c.p.p. e l'affidamento in prova al servizio sociale), e, per l'appunto, in materia di messa alla prova (la più mite cornice edittale consentiva all'imputato, tratto a giudizio per l'ipotesi lieve, di accedere all'istituto introdotto dalla legge 28 aprile 2014, n. 67). Era, dunque, venuto a delinearsi uno “statuto del fatto lieve” permeato dal chiaro intento di evitare - dalla fase delle indagini, e fino al momento dell'esecuzione della pena - l'ingresso e la permanenza nel circuito carcerario di chi si rendeva responsabile di un fatto di spaccio di lieve entità. La più recente scelta di innalzare sensibilmente la cornice edittale prevista per il reato di cui all'art. 73, comma 5, del Testo Unico è direttamente ricollegabile ad una ben precisa scelta del legislatore, che tuttavia non pare essere stata ispirata né da considerazioni in merito alla concreta offensività della condotta incriminata, né dall'esigenza di contrastare in maniera più efficace le condotte punibili, quanto, piuttosto, dall'esigenza di rimodulare proprio alcune conseguenze di carattere squisitamente processuale. I Dossier predisposti dal Servizio Studi del Senato sottolineano, infatti, a chiare lettere che «tale innalzamento della pena massima, da 4 a 5 anni, per lo spaccio di lieve entità, consentirà l'applicazione, anche nel caso di indagati-adulti, della misura della custodia cautelare», non incontrandosi più lo sbarramento dell'art. 280, comma 2, c.p.p., a mente del quale la custodia in carcere può essere disposta solo per delitti, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. L'esclusione della messa alla prova - in netta controtendenza rispetto al chiaro intento deflattivo che aveva da ultimo ispirato la riforma Cartabia - può, forse, considerarsi un effetto non adeguatamente considerato, al pari della necessità, imposta dalla nuova cornice edittale, di celebrare anche per i fatti di lieve entità l'udienza preliminare. Come ha notato Penco, il pur non eccessivo innalzamento della pena massima è stato sufficiente ad attrarre la fattispecie di lieve entità in un circuito processuale più complesso e gravoso: la necessità di procedere con la fissazione dell'udienza preliminare ha comportato un sicuro aggravio organizzativo per i Tribunali, con il rischio di incidere in termini negativi sulle tempistiche dei ruoli d'udienza; analoghe le conseguenze derivanti dall'impossibilità di accedere al meccanismo di diversion costituito dalla messa alla prova, preclusione destinata inevitabilmente a riverberarsi tanto sul carico degli uffici giudiziari quanto sulle stesse modalità esecutive della pena, venendo a mancare un efficace strumento alternativo rispetto alla sanzione detentiva; ancora, la possibilità di irrogare la misura della custodia cautelare in carcere, oltre che emblematica di una mutata sensibilità politica rispetto all'esigenza (evidentemente non più avvertita) di sottrarre comunque dal percorso carcerario i soggetti responsabili dei fatti di minore gravità, ha comportato effetti negativi sui numeri della popolazione detenuta, storicamente costituita per la maggior parte da soggetti ristretti per la commissione di uno dei reati contemplati dal Testo Unico: obiettivo francamente discutibile, sol che si considerino le sempre più drammatiche condizioni carcerarie e la limitata offensività delle condotte delittuose delle quali si discute. L'odierno intervento della Corte costituzionale riporta equilibrio e ragionevolezza al sistema, riaprendo per gli imputati di fatti di lieve entità - in presenza dei presupposti previsti dalla legge - le porte della sospensione del procedimento con messa alla prova. Come è noto, l'istituto della messa alla prova dei maggiorenni si inscrive in un procedimento speciale, alternativo al giudizio, volto alla risocializzazione del reo, attraverso un percorso con finalità specialpreventiva, che tiene conto della natura del reato, della personalità del soggetto e delle prescrizioni imposte, così da consentire la formulazione di un favorevole giudizio prognostico che è alla base di una rinuncia statuale alla potestà punitiva, condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita: esso ha natura sostanziale (in quanto causa di estinzione del reato) oltre che processuale (trattandosi di un procedimento speciale) e si connota per lo svolgimento di un vero e proprio «esperimento trattamentale», sulla base di una prognosi di astensione dell'imputato dalla commissione di futuri reati, che, in caso di esito positivo, determina l'estinzione del reato (Cass. pen., sez. un., 31 marzo 2016, n. 36272). Proprio in considerazione della natura sostanziale – o, a tutto voler concedere, ibrida - dell'istituto, evidenziata ancora di recente dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 8 del 2025 (nelle cui motivazioni può leggersi che «l'effetto sostanziale dell'istituto in questione, che opera come causa di estinzione del reato e perciò incide sulla punibilità della persona, comporta la sua inerenza all'alveo costituzionale del principio di legalità penale sostanziale enunciato dall'art. 25, comma 2, Cost., e dunque la necessaria applicabilità ad esso del regime temporale di irretroattività della legge penale sfavorevole di cui al medesimo articolo»), non paiono potervi essere dubbi sulla possibilità che, all'indomani della sentenza n. 90 del 2025, anche gli imputati di fatti di spaccio di lieve entità commessi prima della dichiarazione di illegittimità costituzionale in commento possano chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova. Riferimenti
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