Controesodati: residenza e domicilio da verificare nella sostanza e non nella forma

04 Luglio 2025

Il concetto di disponibilità dell’immobile, che costituisce elemento dirimente per poter usufruire della detrazione per spese di ristrutturazione, non comporta necessariamente che all’interno dello stesso si esplichi materialmente la convivenza tra il proprietario ed il familiare che ne ha sostenuto le spese.

Massima

Conditio sine qua non è che l’immobile sia nella disponibilità del nucleo familiare e non locato o concesso in comodato a terzi. Così si è pronunciata la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Lombardia con la sentenza n. 832 del 31 marzo 2025.

Il caso

L'Agenzia delle Entrate accertava, in relazione al periodo d'imposta 2015, una maggiore IRPEF a carico di una contribuente, funzionaria UE, ritenendo che la stessa avesse usufruito dell'agevolazione fiscale riservata ai cd “controesodati” (L. 238/2010) senza averne i requisiti. Tale norma agevolativa era stata introdotta nell'ordinamento fiscale dal legislatore pro tempore per favorire il rientro degli italiani che lavorassero all'estero. A tal fine, l'art. 2 comma 1 della citata norma agevolativa prevede che "Hanno diritto alla concessione dei benefici fiscalii cittadini dell'Unione europea, in possesso di un titolo di laurea, che hanno risieduto continuativamente per almeno ventiquattro mesi in Italia e che, sebbene residenti nel loro Paese d'origine, hanno svolto continuativamente un'attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa fuori di tale Paese e dell'Italia negli ultimi ventiquattro mesi o più, i quali vengono assunti o avviano un'attività di impresa o di lavoro autonomo in Italia e trasferiscono il proprio domicilio, nonché la propria residenza, in Italia entro tre mesi dall'assunzione o dall'avvio dell'attività ".

Secondo l'Ufficio, la contribuente, pur avendo lavorato all'estero presso l'Unione Europea, per effetto della specifica normativa applicabile ai funzionari UE, doveva considerarsi domiciliata anche in Italia (i.e. l'art. 13 del Protocollo n. 7 “Sui privilegi e sulle immunità dell'Unione Europea” allegato al Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europa  prevede che i funzionari dell'Unione Europea - i quali, in ragione esclusivamente dell'esercizio delle loro funzioni, si trasferiscono in un Paese diverso rispetto a quello in cui avevano il domicilio fiscale al momento della loro entrata in servizio - continuano ad avere il domicilio fiscale nel Paese di “provenienza” indipendentemente dal fatto che trasferiscano la residenza civilistica effettiva in un altro Stato membro). Pertanto, secondo la tesi erariale, l'essere “solo” domiciliati in Italia nel momento in cui si è all'estero per lavorare nell'UE, in virtù delle specifiche regole dell'anzidetto Protocollo UE, impedisce loro di essere in possesso dei requisiti previsti per fruire dell'agevolazione.

La soluzione giuridica

Requisiti da verificare “nella sostanza”

Secondo la Corte, la circostanza che la contribuente, ope legis, nel periodo nel quale era dipendente dell'Unione Europea, risultasse, solo formalmente domiciliata in Italia, in ragione di una norma sovrannazionale, avente altre finalità, non poteva costituire un ostacolo all'accesso ai benefici di legge previsti a favore dei cd “controesodati”.


I giudici hanno ritenuto che la tesi erariale non trovasse conforto né nel dettato legislativo, né nella ratio legis dell'agevolazione da ricercare nell'obiettivo di far rientrare in Italia cittadini italiani che avessero lavorato all'estero per almeno 24 mesi e che intendessero rientrare in Italia per svolgere la propria attività di lavoro dipendente o autonomo, provvedendo entro tre mesi a trasferire "il proprio domicilio, nonché la propria residenza"; peraltro, hanno affermato a chiare lettere gli interpreti, il tenore letterale della stessa legge indica con chiarezza i requisiti per poter usufruire dell'agevolazione, non suscettibili di estensione analogica. I giudici hanno evidenziato come la ricorrente avesse dimostrato di possedere tutti i requisiti di legge per usufruire del beneficio e, pertanto, hanno ritenuto incomprensibile l'ostinazione dell'Ufficio a far valere ragioni, non espressamente previste dal testo legislativo, quali il trasferimento della residenza, piuttosto che il mantenimento del domicilio in Italia durante il periodo di lavoro, mantenimento che, come dimostrato dalla contribuente, era meramente formale e dovuto ad una norma di carattere internazionale, prevista per altri obiettivi giuridici, ed irrilevante ai fini dell'applicazione dell'agevolazione. In definitiva, la Corte ha affermato il principio secondo cui "la verifica del requisito del ri-trasferimento in Italia andava effettuata valutando l’effettivo e sostanziale trasferimento della residenza e del domicilio all’estero nonché del successivo ri-trasferimento in Italia” (sul punto i giudici hanno sottolineato come l’Ufficio non avesse mai fornito alcuna prova o elemento circa una presunta effettiva residenza in Italia della contribuente, né avesse mai contestato l’effettiva e sostanziale residenza di quest’ultima all’estero).

Osservazioni

In conclusione, la Corte ha ritenuto che gli elementi di prova prodotti dalla contribuente fossero più che sufficienti a dimostrare il possesso dei requisiti previsti dalla legge di favore ovverosia in ordine:

  • allo svolgimento continuativo di un'attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa all'estero negli ultimi ventiquattro mesi o più;
  • al rientro in Italia e alla relativa assunzione;
  • al successivo trasferimento del proprio domicilio, nonché la propria residenza, in Italia entro tre mesi dall'assunzione.

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