La violazione datoriale dell’obbligo di preavviso informativo previsto dal CCNL incide sulla legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto
07 Luglio 2025
Massima Il licenziamento intimato senza l'osservanza delle condizioni previste dal contratto collettivo ossia, nel caso di specie, senza la comunicazione, obbligatoria, dell'imminente scadenza del periodo di comporto, determina la illegittimità del licenziamento per violazione delle garanzie dettate dal combinato disposto degli artt. 2110 cod. civ. e 58 lett. B) del CCNL Lavoratori Addetti all'Industria delle Calzature Il caso La fattispecie oggetto della presente trattazione di commento trae origine dal licenziamento per superamento del periodo di comporto di un dipendente - il quale aveva superato il limite fissato dalla contrattazione collettiva per la conservazione del posto di lavoro -, intimato dalla datrice di lavoro in violazione dell'obbligo di preventiva informativa pattiziamente previsto dall'art. 58 del CCNL di settore applicato, disponente la necessità dell'avvertimento datoriale del lavoratore almeno un mese prima della scadenza di tale periodo. In primo grado, il giudice del lavoro aveva provveduto alla conferma dell'ordinanza conclusiva della fase sommaria, in relazione alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore per superamento del periodo di comporto ed in violazione del menzionato obbligo pattizio e, in parziale accoglimento dell'opposizione proposta dalla società resistente, aveva rigettato la domanda di tutela reintegratoria (accolta in fase sommaria), condannando la datrice di lavoro alla corresponsione, nei confronti del lavoratore, della sola tutela indennitaria, quantificata in 20 mensilità della retribuzione globale di fatto percepita al momento del licenziamento. In sede di gravame, la Corte di appello aveva, quindi, disposto il rigetto del reclamo proposto, ritenendo, conformemente a quanto già considerato in primo grado, che la norma pattizia imponesse, a carico del datore di lavoro, l'obbligo di informare il lavoratore almeno un mese prima della imminente scadenza del periodo di conservazione del posto di lavoro e che tale obbligo fosse stato violato, con conseguente illegittimità del licenziamento, posto che la società si era attivata solo dopo l'avvenuto superamento del periodo di comporto. Tuttavia, la Corte, rilevata la mancata proposizione, da parte del lavoratore, del reclamo incidentale, non riteneva devoluta al Collegio la questione della tipologia di tutela applicabile (tutela reintegratoria o tutela indennitaria), con conseguente conferma, sul punto, della pronuncia del giudice di prime cure. Avverso tale sentenza la società datrice di lavoro ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, ai sensi dell'art. 360 cod. proc. civ., primo comma, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione dell'art. 58 CCNL per i Lavoratori Addetti all'Industria delle Calzature, e la nullità della sentenza per difetto/contraddittorietà della motivazione, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto che la funzione della comunicazione che deve precedere il licenziamento, imposta dalla suddetta norma contrattuale, fosse quella di porre il lavoratore nelle condizioni di determinarsi in relazione ad ogni ulteriore evoluzione della propria condizione, e, più in particolare, di metterlo nelle condizioni di accedere ad istituti alternativi (ferie, aspettativa), laddove dalla lettera della norma si evince una funzione meramente "informativa", finalizzata a consentire al lavoratore di verificare la correttezza dei conteggi aziendali, finalità che, nel caso di specie, sarebbe stata pienamente garantita da parte datoriale. Il lavoratore, a sua volta, con ricorso incidentale, ha rilevato, ex art. 360 n. 3, la violazione e falsa applicazione dell'art. 92 c.p.c., per avere la Corte d'Appello compensato le spese di lite, nonostante l'integrale rigetto del reclamo, fondando tale statuizione sulla asserita controvertibilità della questione, siccome chiarita dalla giurisprudenza di legittimità solo di recente. Secondo il ricorrente incidentale, invece, non avendo il lavoratore impugnato il capo della sentenza relativo alla tipologia di tutela (reintegratoria o indennitaria) spettante in conseguenza dell'illegittimità del licenziamento, l'unica questione devoluta in appello era quella della legittimità del licenziamento intimato in violazione di una norma collettiva, questione che non presentava i crismi né della novità né della controvertibilità. La questione La questione sottesa alla pronuncia in esame involge la tematica della legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto, nell’ipotesi di violazione datoriale del preventivo obbligo informativo, nei riguardi del dipendente, circa l'approssimarsi della scadenza del periodo di conservazione del posto di lavoro. Le soluzioni giuridiche La Suprema Corte, nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, parte dall'osservazione per cui, in assenza di qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro non ha l'onere di avvertire preventivamente il lavoratore della imminente scadenza del periodo di comporto per malattia al fine di permettergli di esercitare eventualmente la facoltà di chiedere tempestivamente un periodo di aspettativa. Ed invero, in tali casi non rileva la mancata conoscenza, da parte del lavoratore, del limite c.d. esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie, nè costituisce violazione dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, dell'approssimarsi del superamento del periodo di comporto. Tali principi, infatti, operano, ai sensi dell'art. 1374 c.c., come norme di relazione con funzione di fonti integrative del contratto, ove ineriscano a comportamenti dovuti in relazione ad obblighi di prestazione imposti al datore di lavoro dal contratto collettivo o da altro atto di autonomia privata. Nel caso di specie, tuttavia, il CCNL applicato in azienda prevedeva espressamente, all'art. 58 lett. B), l'obbligo, in capo al datore di lavoro, di informare il lavoratore almeno un mese prima dell'approssimarsi della scadenza del comporto, così arricchendo la garanzia di conservazione del rapporto di lavoro prevista dall'art. 2110 cod. civ. ed imponendo, oltre alla tolleranza di un determinato periodo di tempo (13 mesi), anche la comunicazione preventiva al lavoratore, con almeno un mese di anticipo rispetto alla scadenza. In tal senso, infatti, il rinvio dell'art. 2110 c.c. alle previsioni del contratto collettivo consente di ritenere che l'obbligo di comunicare l'approssimarsi della scadenza del periodo di comporto, conformi, al pari dell'arco temporale massimo di comporto, l'esercizio del potere di recesso del datore di lavoro, che può, pertanto, risolvere legittimamente il rapporto di lavoro solo nel rispetto delle condizioni dettate dalle parti sociali. E, contrariamente a quanto sostenuto dalla datrice di lavoro ricorrente, deve ritenersi che il silenzio della norma collettiva per l'ipotesi della tardività di tale comunicazione datoriale non porti affatto alla conclusione dell'insussistenza di conseguenze per tale carenza, dovendosi, al contrario, considerare come la stessa determini la equiparazione del ritardo alla omissione. Appare, infatti, intrinseca alla previsione di un obbligo di tenere una condotta o compiere un atto entro un certo termine la valutazione di inadeguatezza a soddisfare detto obbligo il superamento del termine concordemente pattuito. Evidenzia, invero, la Suprema Corte che, come correttamente rilevato dalla Corte d'Appello, al fine di dare pregnanza alla previsione contrattuale e salvaguardare la ratio che la ispira, non è indifferente il momento in cui l'avviso del datore di lavoro interviene. Perché appare evidente come la circostanza che esso debba precedere il momento della consumazione del comporto sia funzionale a porre il lavoratore nelle condizioni di determinarsi in relazione ad ogni ulteriore evoluzione della propria condizione, sia che il periodo di malattia prosegua, sia nel caso in cui ciò non avvenga o avvenga in modo da non determinare l'immediato esaurimento del comporto. Solo con una comunicazione anteriore al termine del comporto, infatti, egli è messo nelle condizioni di accedere ad istituti alternativi (ferie, aspettativa) a cui, una volta superato il predetto limite temporale, non avrebbe più modo di accedere. Per tali ragioni, la violazione del suddetto precetto, in coerenza con la lettera e con la ratio prospettate, risulta integrata non solo dalla omissione ma anche dalla tardività di detta comunicazione, avvenuta successivamente non solo al termine fissato dalla contrattazione collettiva, ma addirittura alla scadenza del periodo di comporto stesso. Correttamente, dunque, il giudice d'appello ha affermato come l'adempimento della comunicazione relativa alla scadenza del periodo di comporto mesi dopo la scadenza del termine stabilito costituisse violazione dell'art. 58 CCNL. Diversamente, è risultato meritevole di accoglimento, per la Suprema Corte, il ricorso incidentale proposto dal lavoratore, in relazione all'eccepita violazione e falsa applicazione dell'art. 92 c.p.c. per avere la Corte d'Appello compensato le spese di lite, nonostante l'integrale rigetto del reclamo, fondando tale statuizione sulla "controvertibilità della questione, chiarita dalla giurisprudenza di legittimità solo di recente". Secondo gli Ermellini, infatti, le gravi ed eccezionali ragioni che giustificano la compensazione, al pari di ogni altra clausola generale, devono essere specificate dal giudice di merito in via interpretativa ed il giudizio, in quanto fondato su norme giuridiche, è censurabile in sede di legittimità. La sentenza additiva della Corte costituzionale (Corte cost. sent. n. 77/2018), non a caso, ha sottolineato la funzione parametrica ed il carattere paradigmatico delle fattispecie tipizzate, esplicative della causa generale, alle quali, all'evidenza, non può essere equiparata "la controvertibilità della questione", oltre al fatto che, in ogni caso, già al momento dell'instaurazione del giudizio di primo grado la questione era priva del carattere di assoluta novità che può giustificare la pronuncia di compensazione. Ed in tal senso, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la Suprema Corte evidenzia come la causa possa essere decisa nel merito dallo stesso Giudice di legittimità, con condanna della datrice di lavoro ricorrente al pagamento, in favore del lavoratore, delle spese processuali anche del grado d'appello, liquidate come da dispositivo. Sul punto, infatti, la Corte evidenzia come l'art. 384 c.p.c. debba essere interpretato alla luce del principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111 Cost., che impone di non trasferire una causa dall'uno all'altro giudice, quando il giudice rinviante potrebbe da sé solo svolgere le attività richieste al giudice cui la causa è rinviata, oltre a considerare il disposto dell'art. 385, secondo comma, c.p.c. che, in tema di spese processuali, accorda ampi poteri alla Corte e le consente di accertare e liquidare non solo le spese del giudizio di legittimità, ma anche quelle dei gradi di merito. Per questi motivi, la Suprema Corte rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale e, decidendo nel merito, condanna la datrice di lavoro a rifondere al lavoratore le spese del grado d'appello così come liquidate. Osservazioni La pronuncia in esame ci consente di avanzare alcune considerazioni di sintesi in merito alla tematica del licenziamento per superamento del periodo di comporto, quale autonoma fattispecie di recesso che conferisce all'imprenditore il diritto di sciogliersi dal vincolo contrattuale, quando la malattia del lavoratore si sia protratta oltre il periodo stabilito dalla legge, dal contratto collettivo o dagli usi. L'addentellato normativo di riferimento di tale istituto lo si rinviene, invero, nel combinato disposto delle previsioni dettate dagli articoli 2110, comma 2 (con riferimento al periodo di conservazione del posto di lavoro per i casi previsti dalla legge) e 2118 c.c. (con riferimento al recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato) nella considerazione, altresì, di come tale disposizione, di natura speciale, prevalga sulla generale disciplina della risoluzione del rapporto di lavoro (legge n. 604/1966), così come sulla disciplina in materia di impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1256 e 1464 c.c.). Diverso e del tutto sui generis, invero, appare il fine teleologico di tale istituto, la cui ratio è sostanzialmente incentrata sull'obiettivo del concreto contemperamento di due interessi antinomici e confliggenti, quale quello del datore di lavoro a mantenere la produttività dell'azienda, e quello del lavoratore a poter beneficiare di un congruo periodo di tempo in ipotesi di malattia e infortunio, in cui curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l'occupazione. Ed è così che il legislatore nostrano ha dettato la regola, rimettendone la specificazione quantitativa alle previsioni di natura pattizia delle varie fonti collettive regolatrici dei settori dell'ordinamento, in base alla quale, una volta superato il limite delle assenze massime previste dal CCNL applicato per la conservazione del posto di lavoro, il datore di lavoro può procedere alla risoluzione del rapporto con il lavoratore, non potendosi giustificare un obbligo conservativo sine die, dinanzi all'emersione di una impossibilità parziale sopravvenuta dell'adempimento, in cui il dato dell'assenza dal lavoro per malattia ha una ragione puramente oggettiva. Senonché, avendo il legislatore rimesso all'autonomia collettiva l'effettiva concretizzazione della disciplina settoriale di regolamentazione in tema di comporto, la giurisprudenza ha a più riprese sottolineato come, nell'ipotesi in cui il CCNL di riferimento non contenga la previsione di un obbligo specifico di avviso, il datore di lavoro non sia tenuto ad informare preventivamente il lavoratore che il suo periodo di comporto per malattia sta per scadere, in modo da consentirgli di adottare i rimedi utili per non farlo compiere. In tale situazione, infatti, l'omessa comunicazione, da parte del datore di lavoro, dell'informativa inerente l'avvicinamento alla scadenza del periodo di comporto non viola i principi di correttezza e di buona fede, poiché il limite massimo rappresentato dal periodo di comporto è, per così dire, “esterno” alla fattispecie del contratto individuale di lavoro, siccome dettato dalla contrattazione collettiva. Tali principi, infatti, operano come norme di relazione con funzione di fonti integrative del contratto (art. 1374 c.c.) ove ineriscano a comportamenti dovuti in relazione ad obblighi di prestazione imposti al datore di lavoro dal contratto collettivo o da altro atto di autonomia privata. Laddove, invece, la contrattazione collettiva di settore abbia previsto espressamente l'esistenza di uno specifico obbligo datoriale di avvertimento preventivo del lavoratore in merito alla imminente scadenza del periodo di comporto, l'omesso adempimento informativo finisce con l'incidere sulla legittimità del licenziamento successivamente comminato su tale presupposto di eccessiva morbilità, essendo, in tal caso, la funzione della comunicazione non di carattere meramente informativo, ma, al contrario, di natura sostanziale, siccome tesa a mettere il lavoratore nella condizione di valutare soluzioni alternative, come il ricorso a ferie residue o aspettativa, e a tutelare il proprio rapporto di lavoro. Per tale ragione, una comunicazione tardiva, come nel caso in esame, si considera alla stessa stregua di una mancata comunicazione, in quanto comportante la sostanziale vanificazione della funzione garantista della norma contrattuale, non potendosi ritenere che la finalità della previsione pattizia sua puramente contabile, per permettere al lavoratore di verificare la correttezza dei conteggi sulle assenze. Ne consegue, come il rispetto dell'obbligo di informativa appaia in tal senso essenziale, dovendosi tanto l'omissione quanto il ritardo considerare quali violazioni gravi, in grado di incidere negativamente sulla validità stessa del licenziamento, nonostante il pacifico superamento del termine di comporto da parte del lavoratore. E si badi, che la giurisprudenza accomuna, alla previsione di illegittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto comminato in assenza dell'informativa prevista dalla fonte pattizia, anche l'ipotesi di risoluzione del rapporto intervenuta nei confronti di un lavoratore affetto patologie così gravi e tali da impedirgli di adempiere l'obbligo di attivarsi per chiedere informazioni sull'approssimarsi del periodo di comporto. In tal caso, infatti, anche in assenza di una specifica imposizione del CCNL di riferimento, il datore sarà obbligato ad avvisare il dipendente dell'avvicinarsi del predetto limite, in ossequio ai principi civilistici di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c. e ai più generali principi di solidarietà sociale ex art. 2 Cost. La ratio di tale imposizione la si àncora, invero, al dato circostanziale per cui la comunicazione datoriale è sicuramente meno gravosa rispetto al dovere di attivarsi per chiedere informazioni da parte del lavoratore gravemente malato, di talché, in tali casi, l'omessa attivazione datoriale finisce con il rappresentare una forma di discriminazione indiretta, ovvero quale condotta che, se pur apparentemente neutra, finisce con il porre alcuni soggetti in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altri in violazione del principio di uguaglianza sostanziale sancito all'art. 3 Cost. |