Non è incostituzionale l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, ma per la Consulta si creano “indubbi vuoti di tutela”
15 Luglio 2025
Massima Non esiste un obbligo in capo al legislatore, discendente dalla Costituzione o dalla normativa pattizia internazionale, di mantenere nel nostro ordinamento il reato di abuso d'ufficio ex art. 323 c.p., abrogato dall'art. 1, comma 1, lett. b), l. 9 agosto 2024, n. 114. Tale disposizione abrogativa non è dunque costituzionalmente illegittima. La scelta del legislatore, tuttavia, apre “indubbi vuoti di tutela”. Il caso La Corte costituzionale si è pronunciata in relazione a quattordici ordinanze di rimessione aventi ad oggetto l'art. 1, comma 1, lett. b), l. 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all'ordinamento giudiziario e al codice dell'ordinamento militare), ossia la previsione che ha abrogato il reato di abuso d'ufficio di cui all'art. 323 c.p. Le ordinanze in parola, tredici delle quali emesse da giudici di merito e una dalla Corte di cassazione (VI sez. pen.), sollevano questioni di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3,11,97 e 117, comma 1, della Costituzione. L'art. 117, comma 1, Cost., in particolare, viene posto in relazione agli obblighi discendenti dagli artt. 1, 5, 7, par. 4, 19 e 65 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (Assemblea generale dell'ONU, 31 ottobre 2003, ratificata con l. 3 agosto 2009, n. 116; di seguito, “Convenzione di Mérida” o “Convenzione”). Come si avrà modo di illustrare, i provvedimenti dei giudici a quibus differiscono tra loro per le censure sollevate e, in alcuni casi, per le relative argomentazioni. I casi che fanno da sottostante al giudizio della Consulta costituiscono un campionario variegato, tipico dell'abuso d'ufficio: l'aggiudicazione di un bene pubblico a un privato in violazione delle normativa amministrativistica in materia; l'assegnazione di licenze e autorizzazioni in assenza dei requisiti di legge; l'accordo illecito tra candidato e esaminatore in un concorso pubblico per l'accesso in magistratura; l'accordo intercorso tra esponenti della polizia giudiziaria, magistrati e imputati in relazione a tempistica e contenuto di un decreto di sequestro; la selezione di personale di un comune in violazione degli obblighi di astensione per conflitto di interessi; l'espletamento di concorsi universitari in cui i vincitori sarebbero stati predeterminati a monte; l'aver favorito propri familiari nell'esercizio di una pubblica funzione (ossia, il padre, direttore dell'Area dei servizi veterinari di un'azienda sanitaria provinciale, che avrebbe favorito l'ambulatorio veterinario del figlio in danno alla concorrenza); ecc. (v. amplius punto 1.1). Per tutti questi casi, la Corte ha preliminarmente dichiarato che la questione sollevata in relazione all'abrogazione dell'art. 323 c.p. risulta rilevante: in ciascun caso il giudice a quo, stante la novella legislativa, si troverebbe infatti nella condizione di dover pronunciare sentenza assolutoria per abolitio criminis (punto 1.2). La questione Un primo tema involge la possibilità per la Corte costituzionale di pronunciare sentenze che determinerebbero la riviviscenza di una norma incriminatrice. In altre parole: può la Consulta emettere decisioni con effetti in malam partem? Una volta inquadrata in termini generali tale questione (che, come si vedrà, attraversa gran parte della sentenza laddove vengono discussi i profili di ammissibilità), la Corte deve decidere quali specifiche censure possono ritenersi ammissibili, e dunque in base a quale norma costituzionale il giudizio di legittimità deve essere impostato. Individuati i corretti parametri di giudizio, rimane da affrontare la domanda nel merito: è costituzionalmente legittima l'abrogazione dell'art. 323 c.p.? Le soluzioni giuridiche L'indirizzo generalmente adottato dalla Corte è di preclusione rispetto a decisioni che producano effetti in malam partem, in omaggio al principio di legalità sancito dall'art. 25, comma 2, Cost., che riserva al solo legislatore le scelte di criminalizzazione (punto 5). Ciò detto, se da una parte la Consulta ricorda che un'eventuale mutazione in peius non si applicherebbe ai fatti commessi nel periodo di vigenza della norma censurata (infatti, troverebbe applicazione la disciplina, pur illegittima, ma di maggior favore) (punto 5.1.5), dall'altra viene altresì rimarcato che tale preclusione generale soffre alcune significative eccezioni. Quella qui di rilievo, concerne, in particolare, la contrarietà della modifica normativa in bonam partem agli obblighi internazionali, rilevanti nel nostro ordinamento ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. (punto 5.1.4). Posta tale premessa generale, il Giudice delle leggi passa dunque all'analisi delle singole censure sollevate, iniziando da quelle relative agli artt. 3 e 97 Cost., richiamati solo da alcune ordinanze di rimessione. La Corte reputa tali censure inammissibili (punto 5.2). In merito all'art. 3 Cost., in particolare, le ordinanze rimettenti di rilievo lamentano un'irragionevolezza censurabile e un trattamento diseguale di situazioni omogenee derivanti dall'abrogazione dell'art. 323 c.p. e dal contestuale mantenimento di fattispecie che puniscono fatti di gravità analoga o inferiore. Sul punto, si citano i reati di cui agli artt. 328, 353 e 353-bis c.p. In merito, la Consulta (anche richiamando precedenti sentenze sulle novelle che già avevano ristretto l'applicazione dell'abuso d'ufficio) rimarca di non poter esercitare un sindacato di ragionevolezza quale quello sollecitato: non può, in altre parole, rimediare a eventuali disparità di trattamento facendo rivivere una fattispecie abrogata, in quanto ciò si tradurrebbe in un'ingiustificata pronuncia con effetti in malam partem, in violazione dell'art. 25, comma 2, Cost. Analoghe considerazioni valgono per l'art. 97 Cost., che sancisce i canoni di buon andamento e imparzialità della PA. In questo caso i rimettenti richiedono espressamente alla Corte costituzionale di ripensare il proprio indirizzo generalmente preclusivo in tema di decisioni in malam partem: il quadro giuridico attuale sarebbe mutato rispetto al passato, non riuscendo ad assicurare protezione ai principi espressi dall'art. 97 Cost. (anche) in ragione della mancata introduzione di strumenti che compensino l'abrogazione dell'art. 323 c.p. (ad esempio: illeciti amministrativi). Per le medesime ragioni già esposte (tutela del principio di legalità), tuttavia, il Giudice delle leggi disattende le censure promosse: in assenza di obblighi costituzionali o internazionali di criminalizzazione, è al legislatore che spetta la decisione in merito a quali interessi necessitino di tutela penale. Un obbligo di questo tipo non si ritiene discenda dall'art. 97 Cost. (punto 5.2.5). Vengono poi dichiarate inammissibili le censure che si riferiscono (oltre che all'art. 117 Cost., altresì) all'art. 11 Cost.: quest'ultima norma, rileva la Consulta, viene citata da alcune ordinanze di rimessione, ma si riferisce agli obblighi che derivano dal diritto dell'Unione europea e alle conseguenti “limitazioni di sovranità” citate dalla previsione stessa e qui non di rilievo (punto 5.3). Ammissibili sono invece le censure promosse in relazione all'art. 117, comma 1, Cost., che richiama a sua volta la già citata Convenzione di Mérida: per costante giurisprudenza costituzionale, come detto, tali casi esulano dal generale divieto di emettere decisioni in malam partem. La contrarietà a norme di diritto internazionale si risolve in un'illegittimità per contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost. E d'altronde, ricorda la Corte, non sarebbe ipotizzabile in tal caso alcun vulnus del principio di legalità, atteso che: (i) il diritto internazionale diventa normativa nazionale tramite apposite leggi di attuazione; (ii) gli obblighi di criminalizzazione discendenti dalla normativa pattizia vengono liberamente accettati dal Parlamento tramite legge di autorizzazione alla ratifica dei singoli trattati. Ciò detto, le censure sollevate in relazione all'art. 117, comma 1, Cost., pur ammissibili, vengono considerate non fondate (punto 7). Occorre in proposito premettere che le ordinanze di rimessione riconoscono che, a differenza di quanto la Convenzione di Mérida prescrive tramite altre previsioni che impongono agli Stati precisi obblighi di criminalizzazione (ad esempio: corruzione e peculato), l'art. 19 configura l'abuso d'ufficio come una «non-mandatory offence». Più in particolare, lo stesso art. 19 impone solo un obbligo di «considerare» la criminalizzazione. Cionondimeno, i rimettenti argomentano la contrarietà dell'intervenuta abrogazione alla Convenzione come segue: talune ordinanze osservano come, una volta accertata la compatibilità dell'abuso d'ufficio con l'ordinamento interno (così dovendosi interpretare il dovere di “considerare”), la sua introduzione e mantenimento diverrebbero obbligatorie; altre fanno leva sulle previsioni della Convenzione (artt. 1, 5, 7 e 65) che indicano obiettivi programmatici di introduzione e rafforzamento di presidi in ambito anti-corruzione. In particolare, il riferimento è all'art. 7, comma 4, Convenzione che impegna gli stati a “adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti d'interesse”. Infine, l'ordinanza emessa dalla Cassazione censura non tanto l'abrogazione in sé, quanto la circostanza che la stessa non sia stata accompagnata da misure compensative atte a consentire il mantenimento di adeguati standard anticorruttivi, come imposto dall'art. 7, comma 4. La Corte costituzionale, tuttavia, si dice non persuasa da tali argomentazioni (punto 7). È inequivoco, osserva, che l'art. 19 non introduca alcun obbligo di criminalizzazione dell'abuso d'ufficio: la scelta in merito è stata lasciata al legislatore nazionale, anche in considerazione del fatto che ogni scelta che conduca all'estensione della tutela penale comporta sia vantaggi che svantaggi (ad esempio, un'ovvia incidenza su diritti fondamentali e/o un possibile chilling effect di condotte altrimenti lecite). Tali considerazioni possono cambiare nel tempo e, come nel caso in esame, indurre un legislatore nazionale a tornare sui propri passi. Anche il riferimento alle ulteriori previsioni della Convenzione non è ritenuto dirimente: l'art. 7 non è inserito nella sezione della Convenzione riferita alle sanzioni penali e si limita a sollecitare gli Stati (peraltro conferendo loro ampia discrezionalità) affinché introducano sistemi di prevenzione di condotte corruttive. Ciò posto, osserva la Corte: «è assai arduo […] ipotizzare che dagli obblighi di natura puramente preventiva di cui all'art. 7, paragrafo 4, possa derivarsi in via interpretativa il divieto di abrogare una disposizione incriminatrice, la cui introduzione la stessa Convenzione rinuncia espressamente, nella naturale sedes materiae dedicata agli obblighi di natura penale, a indicare come doverosa per gli Stati parte» (punto 7.3.2). Impossibile poi, afferma la Consulta, fondare un obbligo di non regresso sulle rimanenti disposizioni convenzionali citate, che fissano meri obiettivi programmatici oppure omettono di specificare quali siano le misure particolari da introdurre al fine di realizzare tali obiettivi. Osservazioni Nonostante la ricchezza (e anche suggestività) delle considerazioni avanzate dai rimettenti, dunque, la Consulta ha ritenuto le censure avanzate non ammissibili o non fondate. E la conclusione raggiunta appare, a ben vedere, obbligata. In primo luogo, una decisione di accoglimento si sarebbe caratterizzata per un grande esercizio di ginnastica interpretativa in punto di decisioni in malam partem, la cui preclusione generale è oggi rinnegata solo in alcuni e ben precisi ambiti. Come ricorda la decisione, tali eccezioni sono riferibili a: disposizioni penali di favore, ossia norme che (illegittimamente) risparmiano una categoria di soggetti dall'applicazione della normativa generale; vizi genetici del provvedimento abrogativo; mere conseguenze indirette di una reductio ad legitimitatem di norme processuali; contrarietà a obblighi sovranazionali di incriminazione (punto 5.1). Ma quali conseguenze avrebbe una nuova eccezione, in relazione ad una vicenda abrogativa quale quella qui descritta? Cosa avrebbe significato, in altre parole, riconoscere un'eccezione al generale divieto di decisioni in malam partem in relazione all'art. 97 Cost. o a un parametro ampiamente utilizzato nella giurisprudenza costituzionale come quello di cui all'art. 3 Cost.? La Corte, come detto, non è stata persuasa della legittimità di tale nuova deroga—peraltro, così rimanendo coerente con i propri precedenti in materia di abuso d'ufficio. Ma anche in punto di opportunità si dica che, a differenza di quanto oggi può avvenire con riguardo a una casistica ben delimitata, delineare in maniera chiara e netta i confini di una simile eccezione rispetto a analoghe vicende future avrebbe richiesto non poco sforzo. E, se ciò fosse accaduto, i commentatori si starebbero oggi probabilmente interrogando in merito all'efficacia di una tale operazione. Interessante notare, peraltro, come l'ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma abbia cercato di aggirare (almeno parzialmente) il problema, etichettando il caso in esame (id est: l'abrogazione dell'abuso d'ufficio) quale ipotesi di norma di favore rispetto alla normativa generale. La Consulta ha tuttavia respinto tale operazione ermeneutica e riportato la questione al suo perimetro: quello di una vicenda abrogativa in senso stretto con potenziale reviviscenza di una norma incriminatrice. In secondo luogo, le riflessioni che attengono alla Convenzione di Mérida appaiono tanto semplici e lineari quanto convincenti: se la Convenzione avesse voluto introdurre l'obbligatorietà dell'incriminazione dell'abuso d'ufficio, l'avrebbe fatto. La conclusione cui perviene il Giudice delle leggi non implica necessariamente una condivisione della scelta politico-criminale di abrogare l'art. 323 c.p. Appare utile riportare, sul punto, le riflessioni (quasi) conclusive della Corte: «Se gli indubbi vuoti di tutela penale che derivano dall'abolizione del reato – emblematicamente illustrati dalle vicende oggetto dei quattordici giudizi a quibus – possano ritenersi o meno compensati dai benefici che il legislatore si è ripromesso di ottenere, secondo quanto puntualmente illustrato nei lavori preparatori della riforma, è questione che investe esclusivamente la responsabilità politica del legislatore, non giustiziabile innanzi a questa Corte al metro dei parametri costituzionali e internazionali esaminati» (punto 8). |