La decorrenza dell’effetto estintivo nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo

14 Luglio 2025

La Corte di cassazione si è pronunciata sull’inedita questione relativa all’interpretazione dell’art. 1, comma 41, legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo produca effetto dal giorno della comunicazione d’avvio del procedimento prescritto dall’art. 7 legge n. 604 del 1966. Valorizzando il testo della disposizione secondo cui è fatto salvo il diritto del lavoratore al preavviso e secondo cui il periodo di lavoro svolto durante la procedura è considerato preavviso, la Corte ha ricostruito la vicenda come una fattispecie complessa, fornendo coordinate interpretative utili all’identificazione del dies a quo dell’effetto estintivo nelle diverse ipotesi che la casistica può proporre.

Massima

L'art. 1, comma 41, l. n. 92/2012 va interpretato in modo sistematico con l'art. 1, comma 40, l. n. 92 cit. e quindi con l'art. 7 l. n. 604/1966, sicché la fattispecie estintiva del rapporto di lavoro subordinato mediante licenziamento per giustificato motivo oggettivo è una fattispecie complessa strutturata in tre fasi.

Tale norma va interpretata nel senso per cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo assume rilevanza giuridica sin dal momento di avvio del procedimento conciliativo, ma il lavoratore conserva il diritto al preavviso, sicché se il preavviso è stato dato – nel primo atto di avvio della fattispecie complessa o nell'atto finale di licenziamento – l'effetto estintivo si verifica al compimento del relativo periodo, sia pure calcolato a decorrere dal primo atto della fattispecie complessa; se invece non è stato dato il lavoratore avrà diritto alla relativa indennità sostitutiva, calcolata in misura diversa a seconda che il rapporto di lavoro sia stato interrotto oppure no al momento di avvio del procedimento conciliativo

Il caso

La vicenda ha tratto l'abbrivio dalla comunicazione datoriale del 22.01.2019, con cui era stato annunciato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'apertura della procedura conciliativa davanti all'Ispettorato del lavoro per il successivo 01.02.2019 e la contestuale collocazione in ferie del dipendente dal 24.01.2019 al 01.02.2019.

Slittato il tentativo di conciliazione al successivo 08.02.2019, la società aveva prorogato fino a quel giorno le ferie del dipendente. Proprio l'08.02.2019, il lavoratore presentava all'Inps la domanda di congedo biennale per assistere la madre. Nello stesso giorno, si teneva dunque il tentativo di conciliazione, il cui esito negativo conduceva la società a licenziarlo con lettera del 09.02.2019, ricevuta il successivo 11.02.2019, e nella quale gli effetti del licenziamento venivano fatti procedere dal precedente 08.02.2019.

In questo quadro, l'Inps ha rigettato la domanda di congedo, sull'assunto che al momento della sua presentazione non vi fosse alcun rapporto di lavoro subordinato in corso.

Il lavoratore ha quindi agito in giudizio nei confronti dell'ex datrice di lavoro e dell'Inps per ottenere l'accertamento che la data del licenziamento fosse quella dell'11.02.2019 e il conseguente accoglimento della domanda di congedo.

Il Tribunale di Lucca e la Corte d'appello di Firenze hanno respinto la sua domanda. Il Giudice d'appello, in particolare, ha valorizzato il fatto che, ai sensi dell'art. 1, comma 41, legge n. 92 del 2012, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo produce effetti retroattivamente dal giorno della comunicazione con cui il procedimento ex art. 7 l. n. 604/1966 è stato avviato. Trattasi, secondo la Corte d'appello, d'una norma inderogabile, non suscettibile d'eccezioni diverse da quella in essa specificamente contemplate in tema di tutela della maternità, della paternità e degli infortuni sul lavoro, tanto ciò vero che l'effetto estintivo del recesso, ad onta della diversa indicazione fornita dal datore di lavoro nella relativa lettera, andrebbe individuato nel giorno 22.01.2019, allorché fu comunicato l'avvio della procedura conciliativa. Da queste considerazioni è discesa l'ulteriore rigetto delle pretese attinenti alla domanda di congedo, formulata quando il rapporto era già estinto.

La questione

La pronuncia della Corte di cassazione ha scartato l'interpretazione letterale dell'art. 1, comma 41, legge n. 92 del 2012, segnalando l'incoerenza degli esiti cui essa condurrebbe. Ha così privilegiato una sua interpretazione organica e sistematica, giungendo a ribaltare l'esito cui era pervenuta la Corte d'appello di Firenze e fornendo un quadro ermeneutico utile a governare le molteplici fattispecie che la casistica può manifestare.

Le soluzioni giuridiche

A premessa della propria motivazione, la Cassazione ha richiamato il testo della disciplina rilevante, ricordando che, in base all'art. 1, comma 41, legge n. 92 del 2012, «il licenziamento intimato all'esito…del procedimento di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dal comma 40 del presente articolo, produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato, salvo l'eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva…Il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato».

Ha altresì posto in luce che in base all'art. 7, legge n. 604 del 1966, come novellato dall'art. 1, comma 40, legge n. 92 cit., il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro all'Ispettorato del lavoro e trasmessa per conoscenza al lavoratore, nella quale lo stesso datore di lavoro deve dichiarare l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i relativi motivi. Ricevuta la comunicazione, l'Ispettorato convoca le parti e tenta la conciliazione tra loro. «Se fallisce il tentativo di conciliazione precisa la norma - il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore».

Secondo la Corte, la disciplina derivante dai commi 40 e 41 dell'art. 1 legge cit. implica che gli atti unilaterali del datore di lavoro siano due: il primo è destinato a comunicare l'intenzione di licenziare e ad avviare il procedimento conciliativo; il secondo a procedere al licenziamento medesimo.

Si è al cospetto di una fattispecie complessa, che sul piano strutturale si compone d'una prima fase, avviata dall'atto con cui il datore di lavoro comunica la sua intenzione di licenziare, precisa la motivazione della sua scelta e avvia il tentativo di conciliazione; d'una seconda fase, in cui si snoda il procedimento conciliativo; d'una terza e ultima fase, contrassegnata dall'adozione del licenziamento e dalla sua comunicazione.

Nella pronuncia della Corte, tesa alla ricerca del significato e dell'ambito applicativo della norma, assume valore dirimente il fatto che la disposizione di cui al comma 41 faccia espressa salvezza del preavviso. Ed è proprio muovendo da questo dato che il Giudice di legittimità ha tracciato il quadro delle diverse ipotesi che il legislatore ha inteso disciplinare

In questo senso, la previsione normativa – segnatamente la retroattività del licenziamento dalla data della comunicazione d'avvio della procedura conciliativa - va intesa differenziando la “rilevanza giuridica” del licenziamento dal suo “effetto estintivo”. La prima è sempre retroattiva, il secondo invece no, dipendendo dalla scelta datoriale di intimare il licenziamento con preavviso, oppure di non interrompere il rapporto di lavoro durante il periodo di durata del procedimento conciliativo, qualificato ex lege come preavviso lavorato”.

Per comprendere meglio questa distinzione concettuale, è il caso di soffermarsi sulle diverse ipotesi prefigurate dalla sentenza in commento.

La prima ipotesi è quella in cui il datore di lavoro comunica l'intenzione di licenziare per giustificato motivo oggettivo, avvia il relativo procedimento conciliativo ed interrompe il rapporto di lavoro.

In tale ipotesi, se il procedimento conciliativo ha esito negativo e il datore di lavoro intende estinguere il rapporto di lavoro, dovrà adottare l'atto di licenziamento, che produrrà effetto retroattivamente, ma pur sempre con salvezza del diritto al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva.

Tale salvezza opera in ogni caso, sia che il datore di lavoro già nel primo atto abbia dichiarato di voler licenziare con preavviso, sia che abbia dichiarato di voler licenziare “in tronco”, ossia dispensando il lavoratore dal preavviso. Le conseguenze sono ovviamente differenti a seconda della volontà datoriale.

Se nel primo atto il datore di lavoro ha comunicato di voler licenziare con preavviso, e ciononostante ha interrotto il rapporto di lavoro, il successivo atto di licenziamento acquisterà rilevanza giuridica in modo retroattivo e tuttavia il suo effetto estintivo si produrrà non in quel medesimo momento, ma soltanto al termine del periodo di preavviso, come dichiarato e voluto nel primo atto.

Se invece nel primo atto il datore di lavoro ha comunicato soltanto di voler licenziare, ha taciuto sul preavviso ed ha interrotto il rapporto di lavoro, il successivo atto di licenziamento produrrà la propria efficacia estintiva retroattivamente, fin dal momento della comunicazione del primo atto, e il lavoratore avrà diritto all'indennità sostitutiva del preavviso.

La seconda ipotesi prospettabile è quella in cui il datore di lavoro comunica l'intenzione di licenziare per giustificato motivo oggettivo, avvia il relativo procedimento conciliativo ma non interrompe il rapporto di lavoro.

In tale ipotesi, a prescindere dal contenuto dichiarativo e volitivo del secondo atto datoriale, il periodo in cui in concreto il rapporto di lavoro ha comunque avuto esecuzione è considerato ex lege come “preavviso lavorato”. Qualora poi nell'atto (il secondo) di licenziamento il datore di lavoro dichiari di voler dare il preavviso, allora il periodo intercorso fra il primo atto e il secondo vale ex lege pur sempre come preavviso, sicché residuerà soltanto quell'eventuale ed ulteriore periodo di preavviso previsto contrattualmente in un numero di giorni superiore a quelli già trascorsi. Se invece il datore di lavoro nulla dichiara nel secondo atto e quindi licenzia “in tronco”, al lavoratore spetterà l'indennità sostitutiva parametrata però non all'intero periodo di preavviso, bensì soltanto all'eventuale ulteriore residuo periodo, perché quello lavorato è già qualificato ex lege come preavviso. Ai fini ermeneutici, pure in tal caso resta fermo che il licenziamento produrrà effetto estintivo del rapporto di lavoro non ex tunc dal giorno del primo atto (e di avvio del procedimento conciliativo), bensì ex nunc, ossia dal momento in cui il recesso datoriale è stato adottato, rectius comunicato al lavoratore presso il suo domicilio, vista la sua natura recettizia (artt. 1334 e 1335 c.c.).

Gli approdi della sentenza, secondo le indicazioni della Cassazione, sono l'inevitabile conseguenza del fatto che il periodo di esecuzione del rapporto di lavoro tra l'avvio della conciliazione e il recesso è qualificato dal legislatore come “preavviso lavorato”. In questo senso, il legislatore ammette che l'effetto estintivo non si realizzi nel momento anteriore in cui è iniziato il tentativo di conciliazione, bensì nel momento in cui termina il preavviso, qualora dato, ovvero nel momento in cui, proseguita la prestazione lavorativa, termina il procedimento conciliativo, considerato ex lege come “preavviso lavorato”.

È quindi la disciplina del preavviso ad imporre questa scissione, dal momento che, opinando nel senso che l'effetto estintivo si produca in ogni caso retroattivamente e sin dal momento della comunicazione di avvio del tentativo di conciliazione, il lavoro svolto durante il periodo di durata del predetto procedimento conciliativo andrebbe qualificato come prestazione di lavoro di fatto ai sensi dell'art. 2126 c.c. Si tratta di opzione da scartare proprio perché smentita dall'espressa previsione del legislatore in termini di “preavviso lavorato”, qualificazione giuridica dalla quale deriva che in quel periodo il rapporto di lavoro deve essere ritenuto ancora giuridicamente rilevante, tanto da incidere anche sul calcolo dei giorni di eventuale preavviso residuo.

La Corte ha quindi spiegato che la rilevanza che in tutte le ipotesi prospettabili viene assunta dalla volontà datoriale (di dare il preavviso oppure no) e dal concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro (proseguito oppure no), dipendente pur sempre da una volontaria scelta datoriale, induce ad escludere che – diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Firenze – la norma in esame sia di natura imperativa e quindi abbia carattere inderogabile quanto all'individuazione del momento in cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo produce l'effetto estintivo del rapporto di lavoro.

La disposizione di cui al comma 41 non è posta a tutela di interessi di rango pubblicistico, né tantomeno a tutela di un principio di ordine pubblico, onde non è qualificabile come norma imperativa. Neppure può dirsi che sia norma “di protezione” del lavoratore subordinato, perché anzi la sua valenza è parzialmente pregiudizievole per il dipendente, laddove introduce un'efficacia retroattiva della volontà di recesso, la cui compatibilità con l'inquadramento del licenziamento nell'ambito degli atti unilaterali recettizi (art. 1334 c.c.) è assicurata soltanto a condizione di assegnarvi il significato sopra esposto, ossia di scindere il momento in cui il recesso datoriale acquista rilevanza giuridica da quello in cui produce l'effetto estintivo del rapporto di lavoro.

Piuttosto la norma, con riguardo al profilo in esame, è posta a tutela della certezza dei rapporti giuridici e soprattutto della vicenda relativa alla loro estinzione, ferma la necessità (e quindi l'obbligo) del preavviso.

Quindi gli interessi considerati dal legislatore sono esclusivamente quelli delle parti del rapporto di lavoro subordinato. Pertanto, la norma è in via di principio derogabile, sia pure soltanto in melius, ossia in favore del dipendente, ciò che induce la Corte a ritenere che, entro questo perimetro, il datore di lavoro sia legittimato a “spostare in avanti” l'effetto estintivo altrimenti anteriore.

All'esito di questo percorso argomentativo, la Corte ha quindi cassato con rinvio la sentenza impugnata, censurata nella misura in cui non ha valorizzato la scelta datoriale di non interrompere il rapporto dopo la comunicazione d'avvio della conciliazione, bensì ponendo in ferie il lavoratore ripetutamente. A cascata, una volta escluso che l'efficacia estintiva del licenziamento decorra dal 22.01.2019, la Corte ha segnalato la necessità d'un nuovo esame della domanda di congedo proposta dal lavoratore nei confronti dell'Inps, esame che dovrà considerare, per un verso, il divieto di licenziamento comminato in diretta conseguenza della fruizione del congedo, e, per altro verso, l'inefficacia, fino al termine del congedo, del licenziamento intimato per altra ragione nei confronti del dipendente che fruisca di quest'ultimo.

Osservazioni

La pronuncia in commento è intervenuta in merito ad una questione rispetto alla quale non constano precedenti di legittimità e che, nondimeno, assume eminente rilievo per la determinazione della decorrenza degli effetti estintivo del recesso.

La soluzione adottata dalla Corte rifugge l'interpretazione letterale dell'art. 1, comma 41, legge n. 92 del 2012, per abbracciare un'articolata interpretazione della disposizione, utile quale bussola ermeneutica per il contenzioso futuro, ma non del tutto perspicua in taluni suoi aspetti.

Di fronte al testo del predetto comma 41, secondo cui il licenziamento «produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento (di cui all'art. 7, legge n. 604 del 1966) è stato avviato, salvo l'eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva», con la precisazione che «il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato», la Corte d'appello di Firenze aveva ritenuto – con approccio che si potrebbe dire “lineare” - che la disposizione fosse inequivocabile nell'attribuire al licenziamento – e quindi anche ai suoi effetti estintivi - efficacia retroattiva. In questo senso, il Giudice di merito aveva ritenuto che la salvezza del preavviso e i riferimenti ad esso dovessero essere intesi come strettamente diretti a qualificare e regolare la materiale esecuzione della prestazione lavorativa nel corso della procedura, così da disciplinare le ipotesi in cui il lavoratore abbia continuato a prestare la propria attività in un lasso di tempo durante il quale il rapporto di lavoro potrebbe, ex post, risultare risolto. In tal modo, del resto, si sarebbero consentito al datore di lavoro di detrarre la retribuzione corrisposta in detto periodo dall'eventuale indennità sostitutiva del preavviso dovuta al lavoratore.

Questa lettura, come già evidenziato, non è stata sposata dalla Cassazione, le cui argomentazioni, da un lato, valorizzano il fatto che la norma forgia una fattispecie a formazione progressiva contrassegnata da due atti datoriali - la comunicazione della volontà di recedere, con conseguente avvio della procedura conciliativa, e il successivo recesso, in caso di fallimento della conciliazione – e, dall'altro lato, rendono coerente questa disciplina con quella del preavviso, oggetto d'espressa salvezza da parte della medesima disposizione.

Nel tentativo di semplificare l'intreccio di considerazioni espresse dalla Corte, può dirsi che dalla sua pronuncia emerge un quadro per cui l'efficacia retroattiva del licenziamento va apprezzata distinguendo, da un lato, la “rilevanza giuridica” del licenziamento, sempre retroattiva, e, dall'altro lato, la sua “efficacia estintiva”, la cui decorrenza finisce per dipendere, strettamente, dalle scelte datoriali in merito al preavviso e alla gestione del rapporto nel periodo intermedio.

Infatti, se il preavviso è stato dato – nel primo atto di avvio della fattispecie complessa o nell'atto finale di licenziamento – l'effetto estintivo si verifica al compimento del relativo periodo, sia pure calcolato a decorrere dal primo atto della fattispecie complessa; se invece non è stato dato, il lavoratore avrà diritto alla relativa indennità sostitutiva, calcolata in misura diversa a seconda che il rapporto di lavoro sia stato interrotto oppure no al momento di avvio del procedimento conciliativo.

In questo modo, la Corte ha inteso valorizzare il riferimento al preavviso compiuto dall'art. 1, comma 41, da intendersi non come strumentale a qualificare l'eventuale prestazione resa medio tempore, ma come profilo sintomatico della pendenza del rapporto nel corso di quest'ultimo. In questo modo, tra l'altro, la Corte ha inteso evitare che la prestazione eventualmente svolta nel periodo intermedio debba essere qualificata come prestazione di fatto ai sensi dell'art. 2126 c.c..

Lo scenario di risulta, senz'altro articolato, è l'esito d'un'analisi che la Corte ha compiuto in modo assai approfondito e che, grazie alla casistica considerata, è idonea a fornire una soluzione per ogni diversa ipotesi che, in concreto, può verificarsi in dipendenza delle scelte adottate dal datore di lavoro.

Lascia tuttavia perplessi il fatto che una serie di ipotesi finiscano per dipendere dal fatto se, dopo l'avvio della conciliazione, vi sia stata o meno “interruzione del rapporto”, locuzione cui la Cassazione ha assegnato un ruolo centrale nel governo della fattispecie ma che, non coincidendo né con la “cessazione del rapporto” né con la sua “sospensione”, rispondenti a casi tipici, risulta impalpabile perché, prima facie, non consente un'immediata identificazione delle ipotesi a cui con essa s'intende fare riferimento.

In ottica interpretativa, l'unica strada che consenta una collocazione “sistematica” della locuzione in questione potrebbe essere quella per cui si dà il caso di interruzione del rapporto ogniqualvolta, comunicata l'intenzione di recedere, il datore di lavoro non chieda il lavoro durante il preavviso, né si verifichino fenomeni incompatibili e “volontari” con l'esonero da esso (ad esempio, come nella specie, il godimento delle ferie). Quindi, il rapporto potrà dirsi interrotto fin dalla comunicazione iniziale, da cui far decorrere gli effetti estintivi del licenziamento, solo quando, esplicitamente, venga segnalato che sarà corrisposta l'indennità sostitutiva del preavviso o, implicitamente, si taccia sul preavviso ma pur sempre esonerando il lavoratore dallo svolgere la prestazione.

Nondimeno, è da segnalare che quest'ultima ipotesi, ovverossia quella dell'interruzione “implicita”, sebbene tratteggiata come “fisiologica” dalla pronuncia in esame, pare, invero, “patologica”, essendo difficile comprendere come il datore di lavoro possa legittimamente decidere di “interrompere” il rapporto senza fornire ulteriori e migliori indicazioni quali l'esplicito esonero dal lavoro nel preavviso.

La Corte, tuttavia, pare aver dovuto ricorrere a quest'ipotesi di “interruzione implicita” perché, abbandonata l'ipotesi interpretativa “secca” adottata dalla Corte d'appello, ha aperto il fronte ad una casistica tra cui figura l'ipotesi, più che verosimile, in cui la comunicazione della volontà di licenziare non contiene indicazioni in ordine al preavviso. È l'ipotesi che la Cassazione ha descritto come quella in cui, con il primo atto, «il datore di lavoro ha comunicato soltanto di voler licenziare, ha taciuto sul preavviso ed ha interrotto il rapporto di lavoro».

Per questo caso, la Corte ha dovuto fornire una soluzione che consenta di dare significato al “comportamento interruttivo implicito iniziale” mediante un atto “successivo ed eventuale” – il licenziamento – nel senso che con esso il datore di lavoro «potrà ancora dichiarare la volontà di dare il preavviso oppure nulla», come è logico che sia visto che è solo il licenziamento “in senso stretto” a dover prendere posizione sul preavviso. D'altra parte, prima che sia adottato il licenziamento, parlare del preavviso pare non abbia effettiva attualità.

In questo modo, però, si giunge ad una soluzione che, graficamente, potrebbe essere rappresentata come la paradossale Scala di Penrose, laddove il fatto temporalmente successivo (licenziamento) viene trasformato nell'antecedente logico-interpretativo del fatto iniziale (la comunicazione della volontà di licenziare).

L'interpretazione data dalla Corte d'appello di Firenze era sicuramente idonea ad evitare questo corto circuito ed era giustificata dal tenore testuale della norma, senz'altro idoneo ad essere interpretato come espressivo d'una soluzione netta, avulsa da sottili distinzioni ed utile ad attribuire efficacia retroattiva tout court al licenziamento.

È per questo che la soluzione della Cassazione non riesce a convincere pienamente.

Ad ogni buon conto, e osservando il lato pratico, poiché dalle parole della Cassazione deriva che la decorrenza del recesso finisce per dipendere, strettamente, dalla discrezionalità del datore di lavoro, è da auspicare che, onde dissipare in radice dubbi e questioni, questi, con la propria comunicazione iniziale, faccia un “balzo in avanti”, escluda fin da subito il lavoro nel preavviso e “interrompa” così il rapporto.

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