Nullo il licenziamento intimato ai lavoratori che esercitino azioni collettive protette anche se diverse dallo sciopero
16 Luglio 2025
Massima L’esercizio di un’azione collettiva che, pur non configurandosi come esercizio del diritto allo sciopero, senza trasmodare in atti violenti o in danneggiamenti, persegua la finalità di ottenere migliori condizioni di lavoro o il rispetto dei contratti collettivi, non può costituire giusta causa di licenziamento individuale. Il caso La società, ricorrente presso la Corte di cassazione, ha licenziato un proprio dipendente per giusta causa, per aver questi prestato la propria opera durante un turno diverso da quello disposto dal datore, così contravvenendo alle indicazioni aziendali relative all'organizzazione del lavoro in turni orari a scorrimento. Invero, il lavoratore, unitamente ad altri dieci dipendenti, ha coscientemente scelto di non conformarsi ai turni orari a scorrimento precedentemente comunicati, effettuando la prestazione lavorativa in un differente slot orario in segno di protesta contro la scelta datoriale di non corrispondere un'indennità dovuta ai sensi del CCNL applicato dalla società. Ciononostante, quest'ultima ha, in quella circostanza, accettato la prestazione lavorativa così resa, remunerandola regolarmente e senza opporre alcuna eccezione. La Corte d'Appello di Napoli, riformando la decisione del Giudice di primo grado, ha annullato il licenziamento intimato dalla società, applicando la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, della Legge 20 maggio 1970, n. 300, ritenendo assente l'asserita giusta causa del provvedimento espulsivo. Ciò in quanto, secondo la Corte territoriale, l'infrazione commessa dal lavoratore sarebbe rientrata tra le condotte punibili con una sanzione conservativa (tra quelle previste dall'art. 69 del CCNL Alimentari Industria, applicabile al rapporto di lavoro in questione). In particolare, tenendo in debita considerazione le peculiari circostanze del caso concreto, i Giudici della Corte d'Appello hanno escluso la configurazione di una grave insubordinazione nei confronti del datore di lavoro. La questione La sentenza della Corte d'Appello di Napoli è stata impugnata in Cassazione da parte della società, la quale ha sostenuto, tramite quattro motivi di ricorso, la legittimità del licenziamento sotto diversi profili. Il lavoratore ha resistito con controricorso e ha proposto un ricorso incidentale affidato a tre motivi. Quest'ultimo, con il primo motivo, ha rilevato la violazione e falsa applicazione dell'art. 40 della Costituzione, il quale statuisce che il diritto di sciopero debba essere esercitato nell'ambito delle leggi che lo regolano, nonché dell'art. 2119 c.c., relativo al recesso per giusta causa. Invero, secondo il lavoratore, la Corte d'Appello avrebbe erroneamente omesso di classificare la fattispecie concreta in una nuova forma di sciopero atipica, non tenendo in debita considerazione le caratteristiche e le modalità di esercizio delle condotte tenute dai lavoratori coinvolti nella vicenda, tra i quali il ricorrente incidentale, nonché della circostanza che, nel caso di specie, non si sia verificato alcun danno alla produttività dell'impresa (intesa come possibilità per l'imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica). Con riferimento alla valutazione della Corte d'Appello circa la possibilità di optare per una sanzione conservativa (in luogo di quella espulsiva) per il mancato rispetto dell'orario di lavoro stabilito dalla società, il lavoratore ha, altresì, denunciato il mancato conferimento di rilievo, da parte della Corte napoletana, all'accettazione da parte del datore di lavoro della prestazione resa nel diverso orario lavorativo, regolarmente retribuita dalla società ricorrente – e, ciò, seppure la prestazione fosse stata eseguita in uno slot orario differente da quello previsto dai turni orari a scorrimento in vigore a livello aziendale. Pertanto, il lavoratore ha chiesto che venisse accertato che la condotta dallo stesso tenuta, insieme agli altri lavoratori, integrasse l'esercizio di una legittima forma di protesta collettiva, ricollegabile all'esercizio del diritto di sciopero “atipico o meno”, e che venisse dichiarata la natura illecita, ritorsiva e discriminatoria del licenziamento intimato dalla datrice ai sensi dell'art. 4 della legge n. 604/1966. Le soluzioni giuridiche La Corte di cassazione ha esaminato, in via pregiudiziale, il ricorso incidentale proposto dal lavoratore, in quanto, secondo la stessa, costituirebbe presupposto logico-giuridico dell'intera controversia, accogliendo le richieste del lavoratore per le ragioni di seguito indicate. In via preliminare, la Corte di cassazione ha rilevato come la condotta verificatasi nel caso di specie non potesse “dare adito ad una mancanza di natura disciplinare del singolo lavoratore, ma integrasse una azione collettiva di inosservanza del turno di lavoro” portata avanti da undici dipendenti, tra cui il ricorrente incidentale, “allo scopo di contestare la volontà datoriale di non corrispondere più la relativa indennità”. La Suprema Corte ha riscontrato che la ricostruzione effettuata dal lavoratore circa la “dimensione collettiva della protesta” fosse stata riconosciuta dalla Corte d'Appello di Napoli e la stessa, secondo l'Alta Corte, doveva desumersi “dalla dimensione collettiva della questione disputata, dalla concordanza delle plurime condotte dei lavoratori, dal contesto in cui si sono svolti i fatti, dalla sequenza cronologica degli eventi e dalla finalità delle azioni messe in atto dai lavoratori”. Tuttavia, come rilevato dalla Cassazione, pur avendo riconosciuto la dimensione collettiva della protesta, la Corte territoriale – dopo aver escluso la ricorrenza della fattispecie dello sciopero, in quanto non proclamato dal sindacato, né accompagnata da alcuna astensione lavorativa – aveva ritenuto che la stessa integrasse una condotta illecita, verificatasi al di fuori dei canali di lotta e autotutela che l'ordinamento garantisce, escludendo che il licenziamento potesse considerarsi, pertanto, ritorsivo o discriminatorio. Secondo la Cassazione, le valutazioni apportate dalla Corte territoriale hanno condotto quest'ultima in contraddizione in quanto, pur riconoscendo la natura collettiva dell'azione, nonché le finalità della stessa, essa non ne avrebbe dedotte le corrette conseguenze giuridiche. Infatti, rifacendosi a una declinazione assestatasi in giurisprudenza di legittimità, gli Ermellini hanno offerto una precisa definizione di sciopero, consistente in un “atto a forma libera, che non richiede la proclamazione del sindacato, configurando esso un diritto la cui titolarità spetta individualmente ad ogni lavoratore, mentre il solo esercizio deve esprimersi in forma collettiva”. La stessa Corte ha proceduto rilevando che, nel caso di specie, tuttavia, non si fosse dinanzi a un caso di sciopero, in quanto quest'ultimo avrebbe richiesto, altresì l'astensione almeno parziale dal lavoro (al riguardo la Cassazione ha richiamato copiosa giurisprudenza di legittimità, tra cui, da ultimo, Cass. n. 13537/2024). Secondo la Cassazione, pur ritenendo che tale aspetto non fosse stato integrato nel caso in esame e, di conseguenza, restando al di fuori della fattispecie di sciopero, la condotta realizzata dal ricorrente incidentale, insieme agli altri suoi colleghi di lavoro, dovesse considerarsi quale forma di autotutela collettiva, e che, in quanto tale, non potesse costituire un illecito, con la conseguenza che il licenziamento comminato in ragione della partecipazione del lavoratore a tale evento non poteva che considerarsi nullo ai sensi dell'art. 4 della legge 604/1966. Infatti, gli Ermellini hanno chiarito che la protesta collettiva fosse nata al fine di opporsi a un atto unilaterale del datore di lavoro, mediante il quale quest'ultimo intendeva disapplicare una disposizione del contratto collettivo. Pertanto, come si legge nella sentenza de quo, la Corte d'Appello avrebbe sbagliato a non rilevare che l'azione di protesta collettiva potesse, in realtà, essere promossa dal gruppo di lavoratori ”senza dover essere necessariamente promossa dal sindacato ed esprimersi nella forma dello sciopero”. Al riguardo, la Cassazione ha constatato che non siano state tenute in debita considerazione dalla Corte napoletana le previsioni costituzionali, nonché le fonti sovranazionali, che tutelano non solo lo sciopero in quanto tale, ma anche, più in generale, l'azione collettiva e l'attività sindacale in cui essa si estrinseca, considerato che il diritto di sciopero è “soltanto una delle manifestazioni e delle forme di autotutela collettive dei lavoratori in quanto parte della più ampia categoria delle azioni collettive protette dall'ordinamento”. In tal senso, secondo la Cassazione, l'art. 39 della Costituzione conferirebbe una “libertà ampia che spazia dalla scelta delle forme organizzative alla scelta delle modalità dell'azione di autotutela”, e, dello stesso avviso sarebbero anche l'art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, l'art. 13 della Carta Comunitaria Europea dei diritti Sociali Fondamentali dei Lavoratori e l'art. 6 della Carta Sociale Europea. Infine, la Corte di cassazione ha precisato che, se l'azione di protesta collettiva – diversa dallo sciopero – avviene per uno dei fini collettivi chiariti dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (Corte cost. n. 29/1960, Coste cost. n. 123/1962, Corte cost.n. 290/1974; Corte cost. n. 165/1983), allora valgono i medesimi limiti dettati per lo sciopero, costituiti dal rispetto del diritto alla vita, all'incolumità personale e alla libertà di iniziativa economica. Infine, la Suprema Corte ha ribadito che, da lungo tempo, la Corte di legittimità ritiene che la locuzione “partecipazione ad attività sindacali”, ex art. 4 della legge n. 604/1966, abbia un significato ampio, comprensivo “anche dei comportamenti che, al di fuori di iniziative assunte in sede sindacale, siano comunque diretti a far valere posizioni e rivendicazioni dei lavoratori dipendenti” e che, dunque, in presenza di azioni collettive di protesta implicanti la tutela di un interesse collettivo, le forme di lotta organizzata sono tutelate dalla Costituzione e, di conseguenza, non è consentita l'irrogazione di sanzioni disciplinari, né conservative né espulsive, di un lavoratore che abbia scelto di prenderne parte. In ragione di tutto quanto precede, dunque, l'azione di protesta verificatasi non avrebbe, secondo la Cassazione, alcuna attinenza con manifestazioni illecite dell'attività sindacale. Invero, secondo la Suprema Corte: “l'esercizio di un'azione collettiva protetta dall'ordinamento, che senza trasmodare in atti violenti o in danneggiamenti, persegua la finalità di ottenere migliori condizioni di lavoro o il rispetto dei contratti collettivi, non può dare luogo ad un licenziamento per giusta causa, rilevandosi esso vietato ai sensi dell'art. 4 della legge 604/1999”. Così giudicando, gli Ermellini hanno accolto il primo motivo di ricorso incidentale del lavoratore (con il conseguente assorbimento degli altri motivi), rinviando alla Corte d'Appello di Napoli, in diversa costituzione, ai fini del riesame del merito della questione. Osservazioni Occorre, innanzitutto, rilevare l’importanza della valutazione effettuata dalla Corte di cassazione in merito ai requisiti per la configurabilità dello sciopero. In particolare, infatti, la Suprema Corte ha ribadito che l’esercizio del diritto di sciopero non richieda che lo stesso sia proclamato da un’associazione o una rappresentanza sindacale. Invero, mediante tale lettura, ormai consolidata nella giurisprudenza di legittimità, la Cassazione ha riaffermato la tutela del diritto di sciopero inteso come espressione diretta della volontà collettiva dei lavoratori, prescindendo dalla mediazione di soggetti sindacali riconosciuti, al fine di garantire l’effettività del diritto nel pieno rispetto dell’impianto costituzionale in materia. Al contempo, con riguardo al caso di specie, la Corte di Cassazione ha escluso la ricorrenza dell’esercizio di sciopero, mancando l’ulteriore elemento indefettibile individuato dalla giurisprudenza per l’occorrenza dello stesso, ossia l’effettiva astensione dalla prestazione lavorativa. Tuttavia – ed è qui, a parere di chi scrive, l’elemento di maggiore novità che emerge dalla pronuncia – la Suprema Corte ha determinato un’estensione non di poco conto della tutela dell’attività sindacale dei lavoratori, anche laddove non realizzata sotto l’egida di una rappresentanza formalmente costituita. Ciò, è avvenuto attraverso l’espressa esclusione della configurazione di una nuova forma atipica di sciopero, in aggiunta a quelle già esistenti, alcune delle quali strutturalmente assimilabili al caso di specie (si pensi, ad esempio, allo sciopero dello straordinario). Riconoscendo, infatti, la natura discriminatoria – per motivi sindacali – del provvedimento espulsivo di specie, la Corte, pur applicando i medesimi limiti esterni relativi al diritto di sciopero, ha riconosciuto tutela a ogni azione collettivamente intrapresa dai lavoratori e avente la finalità di migliorare le condizioni di lavoro o il rispetto dei contratti collettivi. Orbene, se, da una parte, una tale estensione dello statuto di protezione dell’attività sindacale risulta certamente coerente con il dettato costituzionale – che non postula la mediazione dei corpi intermedi per il relativo esercizio – dall’altra parte non si fatica a intravedere già un cospicuo aumento del contenzioso legato a condotte intraprese congiuntamente da più lavoratori nei confronti del datore per ottenere il miglioramento delle proprie condizioni di lavoro o il rispetto dei contratti applicati in azienda. Alle corti territoriali sarà, quindi, demandato l’arduo compito di scremare le azioni realmente degne della tutela costituzionale in questione, da quelle che cercheranno di accedere abusivamente a un tale regime particolareggiato di protezione. |