La liquidazione del danno subito dal lavoratore nel caso di mancato lavaggio degli indumenti di protezione da parte del datore di lavoro
18 Luglio 2025
Massima Quando il lavoratore, supplendo all’inadempimento datoriale, deve occuparsi autonomamente ed a proprie spese del lavaggio degli indumenti di lavoro rientranti nella nozione di DPI, il risarcimento del danno deve avvenire in via equitativa, adottandosi in particolare il criterio di valutazione dato dal presumibile costo economico del lavaggio stesso e non potendosi invece a tal fine fare riferimento alla retribuzione oraria prevista per il lavoro straordinario. Il caso Un operaio, dipendente di società del settore della distribuzione di energia elettrica, agisce in giudizio chiedendo la condanna del datore di lavoro al pagamento di differenze retributive in suo favore maturate a titolo di risarcimento danni. Il ricorrente, allo scopo, deduce l'inadempimento datoriale rispetto all'obbligazione di provvedere al lavaggio ed alla manutenzione periodica di specifici indumenti di lavoro (antistatici, ignifughi, impermeabili ed isotermici) i quali, poiché destinati a proteggerlo nello svolgimento delle mansioni operative sugli impianti elettrici, compiti a cui era stato adibito in via continuativa nel corso del rapporto protrattosi per oltre vent'anni, dovevano ad ogni effetto di legge essere considerati dispositivi di protezione individuale (DPI) In conseguenza della condotta omissiva del datore di lavoro, egli aveva dovuto occuparsi personalmente ed a proprie spese del lavaggio dei capi: il che, a suo giudizio, costituiva un danno ingiusto da doversi ora risarcire da parte del medesimo soggetto inadempiente. Per la quantificazione di tale danno, il lavoratore in via principale chiede adottarsi il criterio della retribuzione pari ad un'ora di straordinario a settimana, per n.52 settimane l'anno e detratto il periodo feriale, a far data dall'assunzione (1998) e sino a quando (nel 2020) per l'incombenza era stato attivato il servizio di lavanderia aziendale. In subordine, lo stesso ricorrente si rimette alla valutazione equitativa del danno ai sensi degli artt. 1226 c.c. e 432 c.p.c., eventualmente tramite l'ausilio di CTU. La società convenuta, costituendosi in giudizio, chiede il rigetto del ricorso, a tal fine eccependo, in via preliminare, la prescrizione quinquennale delle pretese azionate. Nel merito, l'impresa oppone che le mansioni disimpegnate dal lavoratore non prevedevano il contatto con agenti chimici, tanto che nell'esecuzione di esse il ricorrente normalmente indossava soltanto camicia e pantaloni. In aggiunta, il datore di lavoro deduce che solo in rari casi, allorché era stato chiamato ad operare sotto tensione, il dipendente aveva indossato un completo specificamente resistente ai rischi termici dell'arco elettrico. La causa, oltre che attraverso l'acquisizione dei documenti prodotti dalle parti, viene istruita con l'escussione dei testimoni da queste rispettivamente indotti Esaurita l'attività istruttoria, il Giudice del Lavoro si pronuncia nel merito. La questione Una volta che sia accertato l'inadempimento del datore di lavoro all'obbligo di lavaggio degli indumenti del lavoratore costituenti DPI, come si quantifica il relativo danno? Le soluzioni giuridiche La produzione giurisprudenziale in materia di Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) si sta arricchendo di pronunce che affrontano il particolare tema della determinazione della parte contrattuale a cui spetta il compito di provvedere al lavaggio degli indumenti di lavoro. Nello specifico, posto che in parecchi casi gli abiti e le attrezzature che il dipendente indossa durante lo svolgimento delle mansioni lavorative sono forniti dall'azienda proprio perché costituiscono DPI, divenendo quindi indispensabili, ci si interroga sul soggetto al quale effettivamente competa l'onere della loro cura e pulizia. D'altra parte, si rammenta, l'adempimento discende dal più generale obbligo di mantenimento in efficienza dei dispositivi di protezione, obbligo essenzialmente strumentale ad un proficuo e sicuro utilizzo dei medesimi. In tale prospettiva, prima ancora della natura di DPI, per ogni attrezzatura affidata personalmente al dipendente andrà valutata l'idoneità funzionale del lavaggio - considerato di per sé ed a prescindere da più specifiche azioni manutentive e/o conservative - a garantire l'efficienza protettiva a cui l'attrezzatura stessa è costitutivamente preordinata. Invero, la legge non inserisce espressamente il lavaggio tra le “condizioni di igiene” che il datore è obbligato ad assicurare ai dispositivi in questione ai fini del mantenimento dell'efficienza protettiva, da garantirsi invece esplicitamente attraverso le azioni di “manutenzione”, “riparazione” e “sostituzione”. Nello specifico, l'art. 77, comma 4, lettera a), d. lgs. n.81/2008 (in precedenza, il previgente art. 43, comma 4, d. lgs. n. 626/1994) dispone che il datore di lavoro “mantiene in efficienza i DPI e ne assicura le condizioni d'igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie e secondo le eventuali indicazioni fornite dal fabbricante”. Come può notarsi, tale norma non fa espresso riferimento agli abiti da lavoro-DPI ma riguarda, in linea generale, ogni dispositivo di protezione individuale. In alcuni casi, però, considerate le specifiche finalità protezionistiche dell'attrezzatura di cui viene dotato il lavoratore (si pensi, ad esempio, a corde, funi, imbracature, maschere, etc.), il lavaggio, nel suo significato proprio di pulitura, asciugatura ed eventuale stiratura, risulta irrilevante allo scopo di preservare le condizioni di efficienza e sicurezza dell'attrezzatura stessa. In tali ipotesi, non può pertanto addossarsi al datore di lavoro l'obbligo di provvedere ad un'attività periodica di lavaggio degli strumenti di lavoro in dotazione ai dipendenti (in tale senso, Trib. Treviso, sez. lav., 7 aprile 2022, n. 191, in Dejure.it). Solo quando, all'opposto, il capo od accessorio di vestiario venga indossato durante il lavoro con il mirato scopo di proteggere il lavoratore dal contatto con agenti pericolosi, chimici, biologici e/o elettromagnetici, può ritenersi sussistente per il datore di lavoro l'obbligo di mantenere le condizioni di efficienza ed igiene del capo stesso attraverso la descritta attività di lavaggio. Il principio ha trovato conferma nella giurisprudenza della S.C., la quale, ad esempio con le sentenze nn.16495/2014 e n.8585/2015, ha sottolineato che, ove (e soltanto ove) il lavaggio periodico sia indispensabile per mantenere gli indumenti di protezione in stato di efficienza, esso deve essere posto a carico del datore del datore di lavoro quale destinatario dell'obbligo previsto dalla citata disposizione. Ad ogni modo, per valutare la sussistenza nel caso concreto dell'obbligo datoriale in esame, andrà altresì di volta in volta accertata la reale natura di DPI degli indumenti indossati dal prestatore. In proposito, ricordiamo che l'art. 74 d. lgs. n. 81/2008, anch'esso in continuità con le previsioni di cui al previgente d. lgs. n. 626/1994, fornisce la definizione normativa dell'istituto. Secondo tale disposizione, per Dispositivo di Protezione Individuale si intende qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo. In buona sostanza, i due elementi costitutivi e, quindi, identificativi del presidio sono rappresentati dal fatto che lo stesso venga indossato o tenuto con sé dal lavoratore durante il lavoro; e dall'ulteriore circostanza che esso, nell'identico frangente, sia idoneo a proteggere il lavoratore dai rischi per la salute e la sicurezza. Quale portato della surriferita nozione legale, di tipo per così dire sostanzialistico, si è presto consolidato l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale eventuali elencazioni di DPI contenute nei testi normativi hanno portata meramente esemplificativa: potendosi il concetto stesso riferire a “qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 c.c.” (sic Cass. n. 8042/2022; conformi Cass. n. 16749/2019; Cass. n. 33133/2019; Cass. n. 5748/2020). Ne discende che l'inclusione degli abiti da lavoro nella categoria de qua non può ritenersi connaturata e pertanto automatica. Nelle ordinarie condizioni di lavoro, infatti, in assenza di particolari fattori di rischio, la protezione generale del corpo del lavoratore è affidata al comune vestiario, sufficiente a tutelare l'individuo dalle moderate sollecitazioni ambientali: termiche, atmosferiche e/o di polverosità. Ed in effetti lo stesso art. 74 d.lgs. n.81/2008, al suo secondo comma, esclude - in primis, (lett. a) - dal novero dei DPI: “gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore”. Soltanto in presenza di rischi particolari, di natura infortunistica o igienico-ambientale, gli indumenti indossati dal lavoratore devono inderogabilmente possedere specifiche caratteristiche protettive. Si pensi, ad esempio, alla necessità di protezione anticorrosiva nell'ipotesi di rischio di contatto con sostanze chimiche pericolose; oppure, alla necessità di indumenti in tessuto, a seconda dei casi, ignifugo, autoestinguente, termo-riflettente o ad alta coibenza contro il calore radiante o il rischio di contatto diretto con fiamme o materiale incandescente. E così ancora in relazione agli altri innumerevoli rischi derivanti dagli ambienti di lavoro. Determinante, in definitiva, per il riconoscimento della natura di strumento di protezione individuale degli indumenti (e relativi accessori) indossati dal lavoratore nell'esecuzione delle proprie mansioni, è che nel caso concreto venga individuato il fattore di rischio a cui il prestatore medesimo è esposto nell'espletamento delle proprie mansioni e, correlativamente, l'idoneità protettiva della divisa o tenuta a lui appositamente fornita. A tal proposito, la giurisprudenza in più occasioni ha risposto negativamente al quesito. Ad esempio, si è reputato che le tute di stoffa distribuite da un Comune ai propri operai addetti ai servizi di manutenzione e pulitura dei parchi e dei giardini pubblici non potessero essere considerate dispositivi di protezione individuale, in quanto indumenti strumentali alla sola preservazione degli abiti civili dall'ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa (Cass. n. 5176/2014; conformi T.A.R. Roma (Lazio), sez. I, 18/10/2010, n. 32839 in Diritto & Giustizia 2019, 26 agosto). Nello stesso senso si è espresso il giudice chiamato ad esprimersi sulla qualifica di DPI, sempre ai fini dell'attribuzione al datore di lavoro dell'onere delle spese di lavaggio, delle divise aziendali indossate da alcuni dipendenti di azienda cantieristica navale per esigenze di ordine, decoro e visibilità oltre che per preservare gli abiti civili dall'ordinaria usura e dallo sporco, senza alcun riguardo a fattori nocivi o patogeni connessi all'espletamento dell'attività lavorativa (Trib. Gorizia 3 ottobre 2013, n.207 , con nota di L. Carleo, Indumenti di lavoro: non sempre la manutenzione delle tute spetta al datore di lavoro solo se le stesse hanno le caratteristiche dei D.P.I., in IUS Lavoro, 26 gennaio 2015; in termini, per le uniformi indossate da agenti di Polizia Municipale, Trib. Catania 20 maggio 2015, n.2268, in DeJure; contra, con riferimento a giacche e pantaloni fluorescenti utilizzati da addetti alla raccolta differenziata dei rifiuti su strada, Cass. n.8042/2022; conforme Trib. Reggio Calabria 10/7/2019, n.1013, in DeJure; così come, nello stesso settore della raccolta rifiuti ma perla funzione protettiva di giubbotti e pantaloni dal contatto con sostanze nocive o patogene, Cass. n. 25401/2019; Cass. n.18674/2015, relativa ad una lavoratrice addetta ad attività di pulizia delle vetture dei treni; in termini analoghi, Trib. Crotone 19 novembre 2020, n. 770 e Trib. Bari 4 maggio 2021, n. 1378, entrambe in DeJure). Differente invece la valutazione espressa nella pronuncia in commento. Secondo il Tribunale di Agrigento, gli indumenti tecnici forniti dall'azienda e costantemente utilizzati dal lavoratore ricorrente nello svolgimento di mansioni operative su impianti elettrici ad alta, media e bassa tensione in funzione antistatica, ignifuga, impermeabile e isotermica debbono essere ad ogni effetto di legge considerati DPI. Il giudice siciliano richiama in proposito l'ampia portata della definizione legislativa dei DPI (art 74, cit.) nonché l'interpretazione, altrettanto estensiva, sempre seguita sull'argomento dalla giurisprudenza di legittimità (tra le tante, è richiamata la pronuncia Cass. n.5748/2020). Ne deriva che, pacificamente, costituisce dispositivo di protezione individuale qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio destinati a proteggere il lavoratore contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro. Pertanto, l'ambito di applicazione dell'istituto, sottolinea il giudice, necessariamente deve essere inteso in senso ampio: stante l'indiscusso rilievo del bene primario della salute che mira a tutelare (art. 32 Cost.). Nel caso di specie, precisa lo stesso Tribunale, la natura di DPI degli indumenti tecnici nel tempo indossati dal lavoratore ha trovato conferma sia nella classificazione dei medesimi all'interno della III categoria di rischio di cui al D. Lgs. n.81/2008 sia nel loro effettivo e costante utilizzo da parte del ricorrente durante le attività operative, come ampiamente riferito dai testimoni escussi. È stato altresì dimostrato in causa che, nello specifico contesto lavorativo, il lavaggio era funzionale a garantire l'efficienza protettiva degli indumenti-DPI. La circostanza, in effetti, ha trovato riscontro documentale nel materiale informativo dell'azienda riferito a tali dispositivi: nel quale, tra l'altro, era prescritto ai dipendenti di mantenere “puliti ed integri” gli stessi, precisandosi ulteriormente, sul presupposto che le puliture ed i lavaggi unitamente all'uso potevano alterare le prestazioni del DPI, che non doveva comunque essere superato il numero di lavaggi per i quali era stata testata la capacità di protezione del prodotto. Orbene, a fronte degli oneri connessi a tale accertata situazione di fatto la società datrice di lavoro aveva provveduto ad attivare il servizio aziendale di lavanderia a distanza di parecchi anni dall'inizio del rapporto di lavoro oggetto di causa. Ritenuta pertanto inadempiente la condotta dello stesso datore di lavoro rispetto agli obblighi di protezione di cui all'art.2087 c.c., il Tribunale condanna il medesimo al risarcimento dei danni affrontando quindi l'ulteriore questione della individuazione e quantificazione del danno ingiusto effettivamente ingenerato in capo al lavoratore. Il quantum del risarcimento, si afferma nella sentenza, non può che essere determinato in via equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c. Tuttavia, lo specifico criterio di liquidazione da adottarsi non è rappresentato, come richiesto dal ricorrente, dalla retribuzione oraria del lavoro straordinario (criterio peraltro in precedenza seguito dallo stesso organo giudicante), poiché il lavaggio degli indumenti di lavoro nel caso particolare è stato assicurato in ambiente domestico. Il risarcimento del danno, ritiene conclusivamente il giudice, è quindi pari al costo dei cicli di lavaggio, circa uno o due a settimana, che i testimoni assunti in corso di causa hanno riferito essere stati in concreto effettuati ad iniziativa del lavoratore ricorrente. L'alternativo criterio di computo rappresentato dalla correlazione del danno al tempo necessario per caricare e scaricare la lavatrice e stendere, raccogliere e piegare gli indumenti avrebbe potuto essere adottato, sostiene ancora il Tribunale, soltanto se fosse stato nel caso di specie dimostrato che i medesimi DPI andavano lavati separatamente rispetto ai capi di bucato familiare. Il lavaggio in unico turno, viceversa, induce a ritenere irrilevante il tempo aggiuntivo per le operazioni specificamente riferite agli abiti da lavoro. Sul versante economico, il Tribunale stima il danno patito considerando il costo di 1,50 euro per lavaggio: comprensivo del consumo di energia elettrica, acqua, detersivo ed ammorbidente; da moltiplicare per il numero di settimane lavorative effettivamente svolte, dovendo escludere che i DPI possano sporcarsi fuori dal servizio. In tal modo, si ritiene congruo considerare una media di 70 lavaggi l'anno, giungendosi ad una valutazione totale di 521 lavaggi per tutto il periodo lavorativo sottratto agli effetti estintivi della prescrizione decennale, ipotesi ritenuta applicabile alla fattispecie in esame (risarcimento danni da inadempimento contrattuale). La somma complessiva liquidata in favore del lavoratore ricorrente risulta dunque pari ad euro 781,50, ulteriormente precisandosi che la stessa viene ritenuta comprensiva di interessi e rivalutazione monetaria in quanto il criterio di liquidazione adottato, anche con riferimento ai crediti relativi a rapporti di lavoro (Cass. n. 2771/2011), già sconta gli effetti negativi dell'inflazione. Osservazioni La sentenza esaminata enuncia chiaramente le questioni sottese al tema, sempre più dibattuto nelle corti italiane, dell'obbligo per il datore di lavoro di mantenere lo stato di efficienza degli indumenti inquadrabili nella categoria dei DPI., con particolare riferimento all'attività di igienizzazione degli stessi attraverso il lavaggio periodico. Nell'accertare tale obbligo, il giudice non può prescindere dalla valutazione di due circostanze essenziali: il riconoscimento della reale natura di DPI del dispositivo considerato; e, prima ancora, la verifica dell'idoneità dell'azione di lavaggio a garantire l'efficienza protettiva propria del dispositivo. Soltanto l'esito positivo di entrambi gli accertamenti comporta per il datore di lavoro l'onere di provvedere con regolarità ed a proprie spese all'opera conservativo/manutentiva di lavaggio dei DPI e, in caso di inadempimento, consente l'accesso alla tutela risarcitoria da parte del dipendente. La giurisprudenza può dirsi sul punto consolidata, come confermato dalle più recenti pronunce di legittimità: Cass. 27 marzo 2025, n. 8152 e Cass. 14 maggio 2024, n.13283. L'aspetto peculiare della sentenza commentata, tuttavia, è costituito dal criterio di liquidazione del danno nella specie utilizzato dall'organo giudicante. Come detto, il Tribunale di Agrigento ha determinato in via equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c. la quantificazione economica del risarcimento accordato al lavoratore: facendo in particolare riferimento ai presumibili costi sostenuti dal lavoratore per i ripetuti lavaggi da questo svolti in sede domestica per rimpiazzare la mancata opera del datore di lavoro inadempiente. Tale criterio, riferito al mero danno emergente pari ai costi vivi sostenuti dal danneggiato a causa della inadempienza dell'altra parte contrattuale, non può però dirsi pacifico in giurisprudenza. In proposito, si sottolinea che le stesse due pronunce di legittimità (Cass. n.16495/2014 e Cass. n. 8585/2015) espressamente richiamate nella sentenza medesima, a conferma dell'enunciato principio dell'onere di lavaggio dei DPI a carico del datore di lavoro, hanno in realtà assunto sul punto decisioni opposte. In particolare, con la prima sentenza (Cass., 18 luglio 2014, n. 16495) la S.C. nel respingere le censure mosse dall'azienda ricorrente avverso l'avvenuta, nel corso del giudizio di merito, liquidazione equitativa del danno rapportando alla retribuzione oraria per lavoro straordinario anziché al costo effettivo di lavaggio di una tuta da lavoro ordinaria ed al tempo necessario per eseguirlo, ha lapidariamente affermato che non è avallabile la tesi secondo la quale il danno da inadempimento non dovrebbe essere quantificato alla luce della perdita subita dal danneggiato quale conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento (cfr., art. 1223 c.c.), bensì alla stregua dei costi di cui sarebbe stato onerato il soggetto inadempiente se avesse adempiuto correttamente alle proprie obbligazioni. In conformità a tale orientamento, più di recente, la stessa Corte di cassazione con la pronuncia n.382/2023 ha condiviso la scelta del tribunale di merito il quale, non essendo possibile quantificare il pregiudizio patrimoniale nel suo preciso ammontare, lo aveva liquidato in via equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c. con un importo corrispondente a un'ora di lavoro eccedente quello contrattuale non festivo (calcolati con maggiorazione da calcolarsi su paga base e contingenza del 28% per i lavoratori part time), ritenuto tale il tempo necessario per il lavaggio, asciugatura e stiratura degli indumenti di lavoro almeno una volta alla settimana, tenuto conto dei valori retributivi di cui al ricorso, in relazione al livello di inquadramento e all'orario lavorativo part time della ricorrente. D'altro canto, con la sentenza Cass. n. 8585/2015 la S.C. ha per contro ritenuto legittima la quantificazione del risarcimento attraverso una CTU che aveva stimato i costi sostenuti per provvedere al lavaggio dei dispositivi DPI personalmente da parte dei lavoratori. |