La risoluzione del rapporto di lavoro per fatti concludenti

25 Luglio 2025

Dopo un periodo prolungato di interruzione del rapporto di lavoro, attuato di fatto, una lavoratrice ha richiesto l’accertamento della sussistenza di detto rapporto nei confronti della società convenuta, la quale, di converso, ha sostenuto che il rapporto tra le parti si fosse risolto per fatti concludenti. La Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sul caso, ha accertato l’esistenza tra le parti di un accordo risolutivo del rapporto di lavoro per fatti concludenti; tuttavia, tale accordo deve ritenersi provvisoriamente privo di efficacia in ottemperanza all’art. 4, commi 17-22 della legge n. 92 del 2012 (regolante le c.d. dimissioni online).

Massima

Per i casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro che si siano verificati successivamente al 12 marzo 2016, l'art. 4, commi 17-22, della Legge n. 92/2012 sancisce una condizione sospensiva dell'efficacia dell'accordo estintivo concluso (espressamente o per facta concludentia) tra le parti, con la conseguenza che la mancata osservanza delle modalità richieste dalla norma citata pone il rapporto di lavoro in uno stato di quiescenza, senza che lo stesso possa dirsi formalmente risolto.

Il caso

La società, un'emittente televisiva locale, e la lavoratrice, una giornalista e conduttrice televisiva, hanno di fatto interrotto il rapporto di lavoro tra loro in essere, avendo, in concreto, la lavoratrice intrapreso un diverso rapporto alle dipendenze di un giornale locale.

Una volta cessato tale ultimo rapporto, la lavoratrice ha messo in mora il primo datore di lavoro – pur essendo trascorso un sensibile lasso temporale dalla relativa interruzione – sostenendo che tra le parti fosse ancora vigente un rapporto di lavoro pienamente valido ed efficace. Di fronte al riscontro negativo della società, la lavoratrice ha convenuto in giudizio il primo datore, al fine di accertare l'ancora effettiva sussistenza del rapporto di lavoro con quest'ultimo.

Il Tribunale di Verona e, successivamente, la Corte di appello di Venezia, competenti territorialmente, hanno respinto la domanda della lavoratrice. Invero, la Corte territoriale ha precisato che dagli elementi probatori emersi si potesse desumere che l'emittente e la lavoratrice avessero posto in essere delle condotte idonee a risolvere per facta concludentia il rapporto di lavoro, prima cha la lavoratrice iniziasse un nuovo rapporto professionale con altro datore. 

La Corte di appello ha ritenuto, pertanto, che i due rapporti di lavoro non si fossero sovrapposti, ma avvicendati, e che, pertanto, il rapporto con il primo datore fosse definitivamente cessato. In generale, la Corte territoriale ha ritenuto che la risoluzione del rapporto di lavoro per fatti concludenti non potesse ritenersi inefficace per via della condizione sospensiva prevista all'art. 4, comma 22 della Legge n. 92 del 2012, la quale, secondo i giudici di secondo grado, è valida per i soli casi di dimissioni. In aggiunta, questi ultimi hanno ritenuto che gli elementi acquisiti provassero che la reale volontà della lavoratrice fosse quella di determinare la cessazione del rapporto. Infine, la Corte d'Appello ha preso in considerazione la previsione collettiva – applicabile al caso di specie – che prevede la forma scritta per la costituzione del contratto di lavoro non si estenda, altresì, alla risoluzione dello stesso (in virtù del principio della libertà delle forme e dell'autonomia tra negozio costitutivo e quello risolutivo).

La questione

La Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sul caso, ha accertato l'esistenza tra le parti di un accordo risolutivo del rapporto di lavoro per fatti concludenti; tuttavia, tale accordo deve ritenersi provvisoriamente privo di efficacia in ottemperanza all'art. 4, commi 17-22 della legge n. 92 del 2012 (regolante le c.d. dimissioni online).

Le soluzioni giuridiche

La sentenza della Corte d'Appello di Venezia è stata impugnata in Cassazione da parte della lavoratrice, la quale ha sostenuto, tramite molteplici motivi di ricorso, la permanente sussistenza del rapporto di lavoro con la società.

In particolare, la lavoratrice ha rilevato la violazione e falsa applicazione, da parte delle corti di merito, dell'articolo 4, commi da 17 a 22, della legge 92/2012, per l'erronea interpretazione del comma 22 dell'art. 4 della stessa, recante, secondo la ricorrente, un refuso nella parte in cui non è esplicitamente prevista – come avviene, invece, per le dimissioni – l'inefficacia della risoluzione consensuale in caso di inottemperanza di un obbligo di sollecito indicato nello stesso articolo.

Nello specifico, al comma 17 è stabilito che l'efficacia delle dimissioni o della risoluzione consensuale sia sospensivamente condizionata alla convalida del lavoratore da effettuarsi presso la Direzione territoriale del lavoro (ora Ispettorato Territoriale del Lavoro) o il Centro per l'impiego territorialmente competenti (o, diversamente, le sedi individuate dal CCNL applicabile al rapporto di lavoro). In alternativa a tale procedura, ai sensi del comma 18, le dimissioni o la risoluzione consensuale sono efficaci a condizione che il dipendente apponga la propria sottoscrizione sulla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro. In applicazione del comma 19, in assenza della convalida richiesta ai sensi del comma 17 e della sottoscrizione di cui al comma 18, da parte del lavoratore, il rapporto di lavoro si intende risolto qualora la convalida o la sottoscrizione non avvengano entro sette giorni dall'apposito invito da parte del datore al dipendente ad adempiere a tali formalità. Infine, ai sensi del comma 22, qualora il datore non trasmetta al lavoratore la comunicazione di cui al comma 19 contenente l'invito ad adempiere entro trenta giorni dalle dimissioni e dalla risoluzione consensuale, le dimissioni devono considerarsi definitivamente prive di effetto. Quest'ultimo passo della normativa, secondo la difesa della lavoratrice ricorrente, conterrebbe un refuso nella parte in cui esso non prevede, altrettanto esplicitamente, l'inefficacia della risoluzione consensuale, così come stabilito con riferimento all'istituto delle dimissioni, in caso di mancata notifica della comunicazione da parte del datore di lavoro.

Con un ulteriore motivo di ricorso, poi, la lavoratrice ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 1372 e 2729 c.c., relativi, rispettivamente, all'efficacia del contratto e all'ammissione della prova per presunzioni semplici, in quanto la Corte territoriale avrebbe utilizzato a tali fini, diversamente da quanto previsto dalla legge, degli elementi presuntivi “palesemente e oggettivamente insussistenti”. Di conseguenza, la lavoratrice ha denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c. e 2729 c.c., per avere il giudice valutato in modo errato i mezzi di prova di cui disponeva e deciso la controversia in base a dati insussistenti.

  La Corte di cassazione ha accolto unicamente il primo motivo di ricorso della lavoratrice, offrendo un'interessante interpretazione della ratio sottesa all'art. 4, commi da 17 a 22 della legge n. 92/2012. Ha, invece, ritenuto gli ulteriori motivi attinenti all'esame nel merito della questione, in relazione alla quale la Corte di Appello di Venezia è stata chiamata a pronunciarsi nuovamente.

La Corte di Cassazione ha fondato il proprio ragionamento giuridico sull'analisi dell'art. 1372, comma 1, c.c., più volte richiamato tra i motivi di ricorso della lavoratrice ricorrente, il quale deve essere interpretato, secondo gli Ermellini, nel senso che il contratto può essere risolto consensualmente o sciolto per altre cause ammesse dalla legge e che, nel primo caso, il mutuo consenso possa essere desumibile da comportamenti concludenti (tranne nei casi in cui sia espressamente richiesta la forma scritta ad substantiam), come già sancito dalla Suprema Corte, riunita a Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 21691/2016), nonché da precedenti pronunce degli Ermellini (Cass. n. 21764/2015; Cass. n. 15264/2006).

Più in generale la Corte di Cassazione ha ricordato che il principio di libertà delle forme, di cui all'art. 1325, comma 1, n. 4, c.c. – secondo cui la forma è requisito essenziale dell'atto soltanto quanto la legge lo richieda espressamente – consenta alle parti di un contratto di scegliere i mezzi che ritengano più congrui al fine di manifestare la propria volontà alla controparte, sia mediante atti espressi, sia per facta concludentia.

Tuttavia, precisa la Corte di Cassazione, è necessario distinguere tra il momento del perfezionamento di un accordo, incluso quello di risoluzione consensuale di un rapporto di lavoro, e quello in cui il negozio perfezionato produce i suoi effetti. Invero, generalmente, sebbene tale ultimo scenario si verifichi immediatamente dopo la conclusione dell'accordo, può accadere, altresì, che i relativi effetti si producano successivamente, solo in presenza di altri presupposti “di carattere integrativo” previsti dalle stesse parti del contratto o dalla legge – ad esempio, mediante l'apposizione di clausole sospensive. Al riguardo, nel caso in esame, l'art. 4, comma 22 della Legge n. 92/2012 ha introdotto, secondo la Corte di Cassazione, una condizione sospensiva che subordina l'efficacia delle dimissioni alla trasmissione, da parte del datore di lavoro al lavoratore, dell'invito a convalidare le stesse ai sensi dei commi 17 e 18. Invero, pur non riferendosi tale disposizione in modo espresso anche alle ipotesi di risoluzione consensuale, la Suprema Corte ha sostenuto che vi sia stato un refuso nella formulazione del comma 22, e che, in ragione del tenore dei precedenti commi (da 17 a 21), tale disposizione non possa che essere intesa nel senso che anche la risoluzione consensuale, come le dimissioni, rimarrebbe definitivamente priva di effetti in caso di mancato invito alla convalida da parte del datore.

Per tale ragione, la Corte di Cassazione ha concluso che, nel caso di specie, in considerazione dell'inerzia tanto del primo datore di lavoro, quanto della lavoratrice ricorrente, ossia dell'inadempimento degli oneri in capo a entrambi ai sensi dei commi 17, 18 e 19 dell'art. 4 della Legge n. 92/2012, il rapporto di lavoro si trovasse, ancora al momento della decisione, in uno stato di quiescenza.

La Suprema Corte ha ritenuto, tuttavia, inammissibili gli ulteriori motivi di ricorso presentati dalla lavoratrice, avendo rilevato che i giudici di merito avessero concluso – e adeguatamente motivato, in esito di un esame globale degli elementi probatori acquisiti – che le parti avessero inteso risolvere il rapporto di lavoro tramite comportamenti concludenti. In via preliminare, gli Ermellini hanno riaffermato il principio, consolidato nella giurisprudenza di legittimità (ab imo, Cass. n. 1037/1968), per cui “l'accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di merito che, se immune da vizi logici e giuridici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità”. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che le censure mosse dalla lavoratrice al ragionamento presuntivo operato dalla Corte d'Appello di Venezia non abbiano denunciato un errore in diritto, né l'omesso esame di un fatto decisivo, ma solamente l'inammissibile richiesta di riesame nel merito del materiale probatorio già esaminato dai giudici di merito, i quali hanno ritenuto lo stesso idoneo a concludere che il rapporto di lavoro si sia concluso per fatti concludenti.

Per le suddette ragioni, la Corte di Cassazione ha rinviato alla Corte d'Appello di Venezia per la decisione sulle sorti del rapporto di lavoro attualmente risolto per fatti concludenti, come già accertato dai giudici di merito, ma inefficace per inosservanza dell'art. 4, commi da 17 a 22 della legge 92/2012.

Osservazioni

È interessante, a parere di chi scrive, effettuare una breve riflessione e raffronto tra la disciplina prevista dalla Legge n. 92/2012, art. 4, commi 17-22, in tema di dimissioni e risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, e quella recentemente introdotta dall'art. 19 della Legge n. 203/2024 (c.d. “Collegato Lavoro 2024”), in relazione alle dimissioni di fatto. Invero, l'evoluzione normativa introdotta rappresenta un ulteriore tassello nel tentativo del legislatore di disciplinare in maniera puntuale e pragmatica tale fattispecie, per ragioni plasticamente evidenziate dal caso oggetto della sentenza in esame.

La novella legislativa prevede che, in presenza di un'assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine fissato dal contratto collettivo nazionale di lavoro – o, in mancanza, superiore a quindici giorni – il datore di lavoro debba darne comunicazione alla sede territoriale dell'Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la conseguenza che, ove tale comunicazione sia effettuata e la stessa non sia contraddetta da giustificazioni del lavoratore riconducibili a cause di forza maggiore o imputabili al datore, il rapporto si intenderà risolto per volontà del lavoratore.

Ebbene, tale previsione legislativa, concepita con l'intento di contrastare fenomeni di incertezza e abusi da parte dei lavoratori, non sarebbe stata, comunque, sufficiente a risolvere le criticità evidenziate dalla Corte di Cassazione con la pronuncia in commento.

Difatti, la nuova disposizione attribuisce al datore di lavoro un onere di comunicazione quale condizione indefettibile per l'efficacia della cessazione del rapporto di lavoro per assenza ingiustificata del lavoratore. Ne deriva, pertanto, che in assenza di tale comunicazione – sebbene l'assenza del lavoratore si sia protratta oltre i limiti previsti – non potrà ritenersi perfezionata la cessazione del rapporto, con la conseguente materializzazione del medesimo iato giuridico – un rapporto risolto di fatto, ma formalmente mai cessato – emerso nel caso analizzato.

Con la precedente normativa, l'inerzia del datore di lavoro rendeva definitivamente prive di effetti le dimissioni o la risoluzione per giusta causa (art. 4, comma 22 legge 92/2012); allo stesso modo, oggi, dopo il Collegato Lavoro 2024, l'inerzia del datore di lavoro continua a costituire un motivo di impedimento dell'efficacia delle risoluzioni avvenute di fatto.

Si osserva, dunque, come la nuova normativa non abbia eliminato il rischio, per i casi di inerzia delle parti, che il rapporto rimanga in uno stato di quiescenza, con conseguenti incertezze applicative e possibili contenziosi analoghi a quello in commento. Ciò che è mutato a seguito della nuova disciplina, invero, è l'onere procedurale a carico del datore, che risultata sensibilmente alleviato; tuttavia, ove tale onere non sia, comunque, dovutamente adempiuto, la volontà risolutiva delle parti per facta concludentia continua a essere inefficace e, pertanto, a non produrre alcun effetto estintivo del rapporto.

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