Il giudizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare nel rapporto di lavoro a tutele crescenti
02 Settembre 2025
Massima L'assenza ingiustificata del lavoratore non giustifica il provvedimento espulsivo, dato che le stesse parti sociali hanno considerato quale giusta causa di licenziamento l'assenza ingiustificata per quattro giorni consecutivi o quanto meno tre nel corso di un anno solare che si verifichino tuttavia nel giorno seguente alle festività o alle ferie. È quindi condivisibile l'applicazione della tutela individuata dal primo giudice (art. 3, primo comma, d.lgs. n. 23/2015) sussistendo il fatto come contestato e non essendo rinvenibile una sanzione conservativa idonea ad inglobare la fattispecie complessa contestata. Il caso La fattispecie oggetto della presente trattazione di commento trae origine dal ricorso per impugnativa di licenziamento e di sei sanzioni disciplinari di natura conservativa, promosso da un dipendente assunto con le mansioni di addetto alle pulizie presso il P.O. Monaldi di Napoli. In primo grado il Tribunale partenopeo, dopo aver respinto le eccezioni preliminari di nullità della sanzione espulsiva per intempestività e genericità della contestazione oltre che per presunta mancata affissione del codice disciplinare, ha ritenuto che il fatto materiale addebitato - riqualificato come allontanamento ingiustificato durante le fasce orarie di reperibilità dal domicilio, equiparabile ad assenza ingiustificata - costituisse fatto disciplinarmente rilevante e comprovato, seppur non adeguato alla sanzione comminata, specie alla luce dell’illegittimità di quattro delle sanzioni conservative applicate al ricorrente. Su tali presupposti il Giudice di prime cure dichiarava cessato il rapporto lavorativo e condannava la datrice di lavoro al pagamento dell’indennità risarcitoria (nella misura di 10 mensilità della retribuzione globale di fatto oltre interessi legali sulle somme rivalutate dalla scadenza al saldo), sancendo altresì l’illegittimità delle altre sanzioni disciplinari conservative irrogate. Avverso tale pronuncia proponeva appello il lavoratore, il quale deduceva l’illegittimità della pronuncia per aver, il Giudice di primo grado: a) interpretato la causa del licenziamento in modo difforme rispetto alla contestazione (atteso che non era mai stato contestato l’allontanamento durante le fasce di reperibilità), b) ritenuto provata la circostanza dell’allontanamento durante le fasce di reperibilità, c) omesso di valutare la tardività della contestazione, d) aver ritenuto contraddittoriamente irrilevante la mancata affissione del codice disciplinare ad onta dell’inquadramento del fatto in una ipotesi codificata, e) ritenuto legittime due delle sei sanzioni espulsive, asserendo che le stesse fossero state comminate per la ritardata comunicazione della malattia in corso e nonostante le contestazioni attinenti alla genericità e mancata affissione del codice deontologico ed, infine f) per non aver ritenuto la nullità derivante dall’insussistenza della recidiva e per aver applicato una sanzione riduttiva. Concludeva, pertanto, invocando la riforma della sentenza di prime cure, con l’accertamento della manifesta insussistenza della ragione posta a fondamento del comminato licenziamento e la richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro e pagamento dell’indennità risarcitoria nella misura di 12 mensilità, ovvero, in subordine, con mero annullamento del licenziamento e declaratoria di risoluzione del rapporto di lavoro, con condanna datoriale al pagamento dell’indennità risarcitoria pari alla misura massima di 36 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. L’appellata, a sua volta, proponeva appello incidentale, contestando la valutazione effettuata dal giudice di prime cure circa l’insussistenza della giusta causa di licenziamento, con richiesta di rigetto del ricorso proposto dal lavoratore, declaratoria di legittimità del licenziamento e delle sanzioni disciplinari ivi richiamate e condanna del ricorrente alla restituzione degli importi corrisposti in esecuzione della sentenza di primo grado. La questione La questione sottesa alla pronuncia in esame involge la tematica connessa all’applicazione della tutela sancita dall’art. 3, primo comma, d.lgs. n. 23/2015, per le ipotesi di accertata sussistenza del fatto contestato e di assenza di una sanzione conservativa idonea ad inglobare la fattispecie complessa contestata, con conseguenti riflessi sul giudizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare nei contratti a tutele crescenti e dell’applicazione del rimedio della reintegra per le sole ipotesi di diretta dimostrazione in giudizio dell’insussistenza del fatto materiale oggetto di contestazione, restando esclusa ogni valutazione di proporzionalità della sanzione da parte del giudice. Le soluzioni giuridiche La Corte di merito, nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, prende le mosse dalla prioritaria analisi della legittimità delle sanzioni conservative applicate al lavoratore, siccome espressamente richiamate nel provvedimento con il quale era stata applicata la massima sanzione espulsiva, da cui l'evidenziata acquisizione di rilevanza prodromica ai fini del complessivo giudizio di gravame. Ebbene, nella delibazione sulle singole motivazioni poste a fondamento delle stigmatizzazioni della pronuncia impugnata, i Giudici d'appello partono dalla delineazione della infondatezza dell'eccezione sollevata dall'appellante principale circa l'illegittimità delle sanzioni per omessa affissione del codice disciplinare. Sottolinea, invero, la Corte come, non solo risulta per tabulas che il lavoratore fosse consapevole del sistema sanzionatorio predisposto dal datore di lavoro in relazione alle condotte espressamente contestate (avendo lo stesso dichiarato espressamente, nel contratto di lavoro sottoscritto in sede di assunzione, di essere a conoscenza delle norme disciplinari relative alle infrazioni, procedure di contestazione e di aver preso visione dell'estratto del CCNL), ma tale circostanza risulterebbe altresì superflua nel caso di specie, siccome in presenza di condotte (allontanamento dal luogo di espletamento delle mansioni in pieno orario di lavoro e senza adeguato preavviso; mendaci dichiarazioni circa la durata dell'assenza certificata) che costituiscono espressione di doveri di buona fede e correttezza nell'adempimento dell'obbligazione contrattuale, non necessitanti, come tali, di un'apposita codificazione che ne sancisca il disvalore. Pertanto, anche a voler ritenere non raggiunta la prova in merito alla previa affissione del codice disciplinare, tale circostanza oltre ad essere superata dal richiamo contenuto nel contratto di assunzione circa la conoscenza del procedimento disciplinare, risulterebbe ininfluente perché, come correttamente rilevato dalla società e come reiteratamente riconosciuto anche in sede di legittimità, tale condizione non è necessaria in presenza della violazione di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione, e cioè di comportamenti immediatamente percepibili come illeciti. Le condotte contestate al lavoratore, infatti, sono disciplinarmente rilevanti non perché lesive di un ordine specifico, ma perché in sé confliggenti con l'esatto adempimento della prestazione. Non si può di certo pensare, invero, che un dipendente si allontani da un luogo di lavoro (e, in particolare, da un presidio ospedaliero), ove egli è tenuto a svolgere mansioni che garantiscano l'esatto funzionamento della struttura (che non può prescindere dall'igiene e dalla sicurezza dei luoghi) senza prima essersi assicurato che il datore di lavoro sia a conoscenza del fatto e che predisponga le adeguate misure. Analogamente, non si può ritenere necessario il previo avviso circa l'importanza che il lavoratore fornisca dichiarazioni veritiere con riferimento alle giornate di assenza da fruire in base a certificazione medica. Evidenzia, invero, la Corte come la società appellante incidentale non abbia fornito specifici elementi dai quali poter desumere la peculiare complessità degli accertamenti, idonea a giustificare un lasso temporale considerevole (anche di sei mesi) tra i fatti censurati e la sanzione applicata, considerando come la sola difficoltà nel reperimento delle informazioni (che ben potrebbe derivare da una disfunzionale organizzazione dell'Ufficio di gestione del personale) non costituisce un elemento tale da fornire adeguata giustificazione al lungo tempo trascorso dal fatto all'applicazione della sanzione. Meritano, quindi, piena condivisione le valutazioni effettuate dal giudice di prime cure circa la illegittimità delle sanzioni indicate come seconda, terza e sesta nel provvedimento impugnato. Viene, però a questo punto in rilievo il profilo centrale del comminato licenziamento, conseguente a due contestazioni disciplinari entrambi riguardanti, in episodi diversi, l'allontanamento del lavoratore dal luogo di residenza in costanza di malattia, con conseguente asserito grave danno all'economicità dell'azienda ed evidente lesione del vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro. Ebbene, in prima battuta e quanto alla tempestività delle contestazioni, la Corte ritiene che non possa essere addotto alcun dubbio al riguardo, poiché il lasso temporale trascorso tra i fatti e la contestazione degli stessi è del tutto compatibile con l'analisi degli esiti delle risultanze investigative pervenute in possesso dell'azienda. Ciò posto, la Corte sottolinea come la condotta del lavoratore che versi in stato di malattia sia regolata dall'art. 51 del CCNL applicato al rapporto de quo, che individua in modo preciso il comportamento che il dipendente deve tenere durante l'assenza per malattia, ponendo a suo carico non solo l'onere di tempestiva comunicazione, ma anche quello di trasmissione del certificato per l'attribuzione del numero di protocollo e l'obbligo di comunicazione del domicilio per le visite di controllo da effettuarsi negli orari di reperibilità. La stessa norma, poi, dispone che, nel caso in cui il lavoratore abbia impedito senza giustificata ragione sanitaria il tempestivo accertamento dello stato di infermità, lo stesso è obbligato al rientro immediato in azienda, in quanto, diversamente, l'assenza sarà considerata ingiustificata. Orbene, il primo giudice, con valutazione del tutto condivisibile, ha ritenuto che il fatto contestato fosse rappresentato dall'ingiustificato allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio durante il periodo di malattia ed in orario incompatibile con l'esercizio delle prerogative datoriali. Né può accogliersi la tesi del ricorrente, il quale ritiene che la qualificazione del fatto indicata dal giudice (assenza ingiustificata per allontanamento in orario di reperibilità) sia estranea ai fatti contestati, atteso che la stessa rientra perfettamente in essi, anche alla luce delle recidive richiamate al fine dell'inquadramento della gravità dei fatti. Ciò posto, la Corte di merito, dopo aver evidenziato di condividere la valutazione del giudice di prime cure circa l'esclusione della ricorrenza di condotte idonee ad impedire il ripristino delle energie lavorative alla luce delle diagnosi comprovate (tanto in merito al comportamento del lavoratore quanto alla mancata prova dell'incidenza della condotta sulle possibilità di riacquisto delle energie psico-fisiche), ritiene, tuttavia, che sussista invece la condotta di assenza ingiustificata, contestata al dipendente per essersi allontanato dal domicilio in orario incompatibile con l'esercizio delle prerogative aziendali di controllo. E, in tal senso, appare dunque necessario comprendere se la sanzione del licenziamento fosse o meno adeguata al fatto contestato. Ebbene, il giudice di prime cure ha ritenuto che l'assenza ingiustificata del lavoratore nelle due circostanze sopra richiamate non potesse giustificare il provvedimento espulsivo, dato che le stesse parti sociali hanno considerato, quale giusta causa di licenziamento, l'assenza ingiustificata per quattro giorni consecutivi (ovvero per tre giorni nel corso di un anno solare che si verifichino tuttavia nel giorno seguente alle festività o alle ferie), circostanza che non ricorre nel caso di specie. Inoltre, tenuto conto della dichiarata illegittimità di quattro su sei sanzioni conservative applicate, la condotta del lavoratore non assurge a quel livello di gravità tale da indurre a ritenere che la sanzione espulsiva comminata sia adeguata e proporzionata ai fatti contestati. Il lavoratore, dunque, sussistendo le due assenze ingiustificate per l'accertato allontanamento in orario di reperibilità, non può lamentare l'insussistenza del fatto, ma solo la valutazione di sproporzione tra fatto e sanzione. Ed, al riguardo, l'art. 3, d.lgs. n. 23/2015 stabilisce come nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità. Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'art. 4, comma 1, lettera c) del decreto legislativo 21 aprile 2000 n. 181, e successive modificazioni. Secondo la Corte territoriale, dunque, sarebbe condivisibile l'applicazione della tutela individuata dal primo giudice, sussistendo il fatto come contestato e non essendo rinvenibile una sanzione conservativa idonea ad inglobare la fattispecie complessa contestata e risultante anche dalla recidiva cristallizzata nelle due sanzioni conservative correttamente confermate in sede giudiziale. Osservazioni La pronuncia in esame ci consente di avanzare delle interessanti considerazioni di sintesi in merito ad alcuni profili oltremodo rilevanti in tema di sanzionabilità disciplinare in ambito lavorativo. Un primo spunto di riflessione, invero, lo si ricava dalla risposta positiva, fornita dalla Corte, al quesito inerente all'estensibilità alle sanzioni conservative del principio secondo il quale, in tutti i casi nei in cui il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non appare necessario provvedere all'affissione del codice disciplinare. Si è in proposito rilevato come, in tali casi, il lavoratore ben possa rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità e gravità della propria condotta, anche qualora ne derivi l'irrogazione di una sanzione conservativa, dovendosi d'altro canto considerare che sarebbe contraddittorio affermare la sussistenza di un interesse del lavoratore ad essere previamente edotto della possibilità di essere destinatario di una sanzione conservativa per i detti comportamenti e negarla in presenza di sanzioni di carattere espulsivo, le quali sono ben più afflittive. Non ricorre pertanto la situazione cui la Corte di legittimità ha ricondotto la necessità che l'ambito ed i limiti della rilevanza ai fini disciplinari dell'inosservanza di tali disposizioni, nonché la gravità della stessa ai fini di adeguatezza della sanzione, siano previamente posti a conoscenza dei dipendenti, nell'osservanza delle prescrizioni dell'art. 7, l. n. 300/1970. Tale condizione, infatti, rileva laddove si controverta della violazione di norme di azione che derivano da direttive interne che possono mutare nel tempo, in relazione a contingenze economiche e di mercato, così come può mutare nel tempo, anche in relazione al luogo, al momento il grado di elasticità consentito nella loro applicazione. Nel caso, invece, in cui si controverta, come nella fattispecie in esame, di comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell'impresa ed all'esatto adempimento della prestazione, per i quali non è dunque necessaria la specifica inclusione nel codice disciplinare, si rientra nella disciplina delle condotte attinte dal principio del c.d. minimo etico e aderenti alle aspettative della coscienza sociale, riconoscibili come tali e sanzionabili senza necessità di specifica previsione. Ciò posto, un profilo di certa rilevanza attiene alla qualificazione, sul piano sostanziale, della natura disciplinare del recesso datoriale, il che comporta l'applicabilità del canone generale della proporzionalità, secondo cui l'inadempimento del lavoratore deve essere caratterizzato da una gravità tale da compromettere definitivamente la fiducia necessaria ai fini della conservazione del rapporto. Il licenziamento resta, invero, sempre una “extrema ratio”, che, come tale, appare legittima solo se proporzionata alla gravità dell'addebito contestato e accertato in giudizio, rappresentando, del resto, tale proporzione, una proiezione del più generale principio di rilevanza attuato in sede civilistica al fine della risoluzione del rapporto, dovendo essere l'inadempimento contestati non di scarsa importanza, come previsto in generale dall'art. 1455 cod. civ. E, in tal senso, la contrattazione collettiva svolge un ruolo essenziale nella disciplina del rapporto di lavoro, privato e pubblico, siccome espressione dell'autonomia negoziale di entrambe le parti, le quali possono prevedere che specifiche inadempienze del lavoratore siano qualificate, in sede pattizia, come meno gravi e, perciò, siano reprimibili con sanzioni solo conservative e non già con il licenziamento, il quale, se intimato, risulterebbe convenzionalmente “sproporzionato”. Viene, così, in rilievo il ragionamento compiuto dalla Corte Costituzionale nella Sentenza del 16 luglio 2024 n. 129, con la quale la Consulta ha rilevato come il riferimento alla proporzionalità del licenziamento, il cui difetto è attratto all'ambito della tutela solo indennitaria, abbia sì una portata ampia, tale da comprendere anche le ipotesi in cui la contrattazione collettiva vi faccia riferimento, ma non concerne, però, anche le particolari ipotesi di regolamentazione pattizia alla stregua delle quali specifiche e nominate inadempienze del lavoratore sono passibili solo di sanzioni conservative. A seguito del d.lgs. n. 23/2015, invero, si è ridotta, per i lavoratori (assunti a partire dal 7 marzo 2015) l'area della tutela reintegratoria rispetto alla disciplina posta dalla legge n. 92/2012 e, ancor più, rispetto a quella precedente della generale tutela reintegratoria di cui all'art. 18 stat. lavoratori, nel testo vigente fino al 2012. E, in tale contesto, di particolare intensità e rilevanza appare la soluzione del problema del giudizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare, in conseguenza del disposto letterale dell'art. 3, co. 2°, d.lgs. n. 23/2015 (c.d. Jobs Act), che condiziona, in caso di licenziamento disciplinare privo di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo nei contratti a tutele crescenti, la reintegra nel posto di lavoro alla diretta dimostrazione in giudizio dell'insussistenza del fatto materiale oggetto di contestazione, restando esclusa ogni valutazione di proporzionalità della sanzione da parte del giudice. Ad onor del vero, medesimo problema si era già posto con riferimento ai rapporti lavorativi sorti in epoca antecedente ad 7.3.2015, visto che la giurisprudenza di legittimità si era espressa in senso restrittivo, evidenziando come l'accesso alla tutela reale di cui all'art. 18, comma 4, Stat., sempre come modificato dalla legge n. 92/2012, presupporrebbe una valutazione di proporzionalità fra sanzione conservativa e fatto addebitato, così come esplicitamente e specificamente tipizzato dalla contrattazione collettiva. Di talché, in assenza di tale espressa e specifica tipizzazione, al lavoratore spetterebbe, anche in caso di licenziamento sproporzionato ma non tipizzato, solo la tutela indennitaria di cui all'art. 18, comma 5, Stat. Il rimedio reintegratorio, pertanto, sarebbe applicabile solo ad infrazioni specificamente tipizzate come passibili di sanzioni conservative e non anche a condotte, punibili con sanzione conservativa, descritte dai contratti collettivi soltanto attraverso clausole generali, sul presupposto: (i) del carattere residuale della reintegra nel posto di lavoro dopo la novella di cui alla legge n. 92/2012, (ii) del rispetto della volontà delle parti collettive (le quali, tipizzando come passibili di sanzione conservativa certe condotte e non anche altre, avrebbero avuto proprio l'intento di espungere le seconde dall'area della reintegra una volta esclusa l'esistenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento) e (iii) della certezza del diritto, in quanto la rigida tipizzazione sarebbe funzionale a rendere chiaramente edotto il datore di lavoro delle conseguenze dell'adozione di una determinata scelta sanzionatoria. Senonché, un più recente e diverso orientamento (sempre relativo ai contratti di lavoro anteriori al 7.3.15) pare essersi consolidato sulla possibilità che, per selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18, commi 4 e 5, della legge n. 300/1970, come novellato dalla l. n. 92/2012, il giudice possa sussumere la condotta addebitata al lavoratore - e in concreto accertata giudizialmente - nella previsione contrattuale che, anche attraverso clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa. E in tal senso, allora, una volta rilevata l'insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, il giudice, ove un'infrazione disciplinare comunque vi sia stata, anche per l'ipotesi in cui la fattispecie risulti delineata dalla norma collettiva solo attraverso una clausola generale, sarà chiamato a concretizzare la portata della clausola mediante sussunzione della condotta accertata nella nozione generale indicata dalla disposizione collettiva. Ove si ammettesse solo una precisa e rigida tipizzazione delle fattispecie a scapito dell'uso di clausole generali o norme elastiche si finirebbe, invero, non solo con lo smentire la stessa volontà delle parti sociali (che, nell'aprire o chiudere la norma collettiva con una disposizione di contenuto generale, hanno comunque inteso demandare all'interprete l'applicazione al caso concreto), ma si correrebbe il rischio di perviene alla conclusione per cui si può perdere definitivamente il posto di lavoro anche per una minima infrazione non specificamente descritta dalla contrattazione collettiva, mentre lo si può conservare a fronte d'un illecito disciplinare anche nettamente più grave sol perché il CCNL lo delinea specificamente nel momento in cui lo punisce con sanzione conservativa. Medesima problematica si è, quindi, riproposta con riferimento al giudizio di proporzionalità del licenziamento disciplinare nei rapporti di lavoro a tutele crescenti, posto che l'art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 sembrerebbe condizionare la reintegra nel posto di lavoro, in caso di licenziamento disciplinare risultato privo di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, alla diretta dimostrazione in giudizio dell'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, escludendo ogni giudizio proporzionalità tra fatto e sanzione espulsiva in sede giudiziale. Ebbene, evitando, per esigenze di sintesi di trattazione, di ripercorrere l'evoluzione della nota querelle tra fatto giuridico e fatto materiale (con l'approdo per cui l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, ai fini della pronuncia reintegratoria, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, pur materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare), l'attenzione non può che essere concentrata sulla espressa previsione legislativa della novella dell'art. 3 comma 2, d.lgs. n. 23/2015, che sancisce l'estraneità di ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento. Secondo il tenore letterale della norma, infatti, un licenziamento potrebbe risultare anche manifestamente sproporzionato (siccome intimato per un'infrazione di infimo rilievo) ma, nondimeno, essere idoneo ad estinguere il rapporto, con applicazione della tutela meramente indennitaria, in quanto apparirebbe ininfluente la maggiore o minore gravità dell'infrazione o l'esistenza o meno di dolo o colpa, purché il fatto materiale esista e non sia stato oggetto della tipizzazione pattizia nel CCNL. Ma tale impostazione appare violativa non solo del disposto dell'art. 2106 c.c. (in virtù del quale le sanzioni disciplinari possono essere applicate "secondo la gravità dell'infrazione", presupponendo pur sempre l'esistenza di colpa o dolo), ma, a ben vedere, rileverebbe anche sotto il profilo del combinato disposto degli artt. 1418 comma 2, 1325 e 1324 c.c., per difetto di causa comportante la nullità dell'atto. Se, infatti, ammettiamo che un licenziamento disciplinare possa risultare intimato per infrazioni disciplinari non tali da integrare notevole inadempimento o, addirittura, senza che vi sia inadempimento alcuno, ciò equivarrebbe a sostenere la totale assenza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, con conseguente nullità per difetto di causa, piuttosto che l'emersione di una nullità per illiceità del motivo determinante. Pertanto, anche con riferimento alla disamina dell'impianto di tutela sancito dall'art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 sui contratti a tutele crescenti, il dovere d'una interpretazione costituzionalmente conforme sembra condurre ad esiti non dissimili da quelli già sperimentati nei contratti di lavoro sorti in epoca anteriore al 7.3.2015. Ma la questione è tutt'altro che acquisita. |